sabato 14 novembre 2020

katatonia, 'dead air'


è brutto da dire ma ormai sono quasi dieci anni che i katatonia non ne azzeccano una. dopo lo splendido ‘dead end kings’ si sono susseguite una serie di uscite che vanno dall’inutile (‘dethroned and uncrowned’, ‘sanctitude’) al brutto (‘the fall of hearts’, ‘city burials’, i due peggiori dischi mai pubblicati dalla band), con unica eccezione il live ‘last fair day gone night’, ancora con liljekvist alla batteria e con una scaletta da applausi.
oggi gli svedesi pubblicano il live ‘dead air’, registrato durante il concerto in streaming del 9 maggio 2020, in piena prima ondata covid. e uno pensa “lockdown, angoscia, katatonia, è perfetto!”. meh. 
anzi, no.

il problema principale di ‘dead air’ è il suono generale: freddo, bidimensionale, poco coinvolgente. “beh sono i katatonia, che ti aspettavi?”
i katatonia li ho visti 9 volte dal vivo tra il 2001 e il 2013, in italia, in svezia e in francia. ognuna di queste volte è stata diversa dalla precedente, ognuna un po’ meglio di quella prima: ho visto jonas crescere come cantante, ho visto il gruppo creare coesione e un suo modo di coinvolgere il pubblico, per quanto ovviamente un concerto dei katatonia non sia una festa latinoamericana. quello che sento qui è un gruppo che suona su un click e pensa come prima cosa all’esecuzione tecnica tralasciando completamente l’emotività della propria stessa musica. sento jonas preoccupato di sbagliare e che quindi canta con un tono che spesso perde il suo tipico carattere (soprattutto mentre si scalda nei primi pezzi), sento un batterista che se fosse una drum machine non cambierebbe molto, sento tutti gli strumenti ben separati e curati ma nessuna pasta generale (le chitarre hanno un tremendo suono da guitar rig, privo di qualsivoglia mordente), manca la densità del suono dei dischi, è tutto pulitino e precisino e un po’ inutile. aspetti il momento in cui farti trascinare ma non è detto che arrivi perché i katatonia sono passati da banda di svedesi alcolizzati a gruppo di metallari fighetti (e non a caso appena è successo la critica ha iniziato ad appiccicargli il prefisso “post-“. perché quanto cazzo fa figo e artista mettere post- davanti al genere anche quando non vuol dire nulla?).

prendete ‘the racing heart’ per esempio, un pezzo che su disco aveva una profondità pazzesca, risultato anche di un bellissimo lavoro di arrangiamento e stratificazione; qui perde tutto, tutto, tutto, a parte le melodie (pure quelle minate da qualche errore di jonas). non ha alcuna dimensione, non ha energia, è vuota e risulta quasi più un intermezzo che una canzone, grazie anche al mosciume batteristico del mediocre daniel moilanen che con il fantastico daniel liljekvist condivide giusto il nome e manca completamente della spinta propulsiva del suo predecessore.
parliamo della scaletta. dunque, ‘city burials’ è uscito in aprile, eliminando ogni possibilità per il gruppo di fare un tour a supporto dell’album, quindi gli sveziani pensano bene di fare un concerto online per i fan. per presentare il disco? uhm, no, non direi visto che su 20 pezzi totali solo 3 provengono da quella schifezza. per fortuna. per presentare magari dei nuovi arrangiamenti? neanche alla lontana, nulla è cambiato di una virgola. per suonare qualcosa di particolare tra i pezzi vecchi? nope, è il solito greatest hits live, più o meno come tutti i live del gruppo tranne ‘last fair day’, troverete l’ennesima versione di ‘ghost of the sun’, ‘teargas’, ‘leaders’, ‘my twin’, ‘evidence’, ‘july’… fermatemi quando vi stupisco. l’unico momento particolare è ‘unfurl’, bellissima b-side di ‘july’ già riesumata nel tour 2013/14. ma poi era veramente il caso di chiudere il concerto con l’orrenda tamarrata che è ‘behind the blood’? un tempo chiudevano con ‘murder’… vabbè.

questo live è completamente inutile, con problemi di esecuzione (il microfono di jonas spesso ha dei vuoti, clip e rumori) e mixato in maniera gelida (e discutibile, con voci che vanno e vengono). non si può dire che sia una merda, per carità, c’è anche qualche momento buono; per dire, ‘in the white’ è suonata molto bene. grazie al cazzo si può pensare, sono 15 anni che non è mai uscita dalle scalette dei concerti, ci mancava che la suonassero male.
nota a parte per il dvd ma con le stesse conclusioni: sono riprese in studio con pressoché zero scenografia a parte per dei neon colorati, spesso fastidiosamente mosse grazie a una maldestra camera a mano su jonas. la mancanza di pubblico non aiuta e i “thank you” mandati al vuoto fanno più ridere che altro, non ve ne farete davvero nulla.

è perfettamente comprensibile che in un momento difficile come questo ognuno faccia quello che può ma questo live è veramente una presa in giro. se siete fan dei katatonia lasciate perdere, se non li conoscete che non vi venga in mente di partire da qui, sarebbe come farsi leggere per la prima volta un bellissimo libro da un bancario burocrate che balbetta anche un po’. 
sorvoliamo.