sabato 14 aprile 2018

prince and the revolution, 'around the world in a day'


disco bistrattato, sottovalutato e perennemente all’omba dei due colossi che lo circondano, chiamati ‘purple rain’ e ‘parade’, ‘around the world in a day’ è nato sfigato, pubblicato troppo presto quando ancora la scia del successo precedente non si era esaurita e privato di tour promozionale. eppure contiene dei pezzi che sono rimasti in scaletta fino alla morte di prince, su tutti ‘raspberry beret’, oltre a momenti di genio che brillano tanto quanto i loro illustri vicini di discografia.

ancora una volta il grosso del materiale è stato scritto appositamente per l’album, con le sole ‘raspberry beret’ e ‘pop life’ a provenire l’una dall’82 e l’altra dal febbraio ’84. è il secondo dei tre dischi accreditati a prince and the revolution e ancora una volta mostra l’influenza crescente che i musicisti da lui scelti stavano avendo sulle sue composizioni. 'around the world in a day’ è il disco in cui viene più a galla quella patina psichedelica che spesso ricopre i brani di prince, c’è un’atmosfera sixties e vagamente beatlesiana, per quanto l’artista abbia sempre negato questa influenza diretta, citando invece stevie wonder, joni mitchell e il miles davis degli anni '80 come artisti che hanno voluto evolvere il proprio suono.

di sicuro i suoni che aprono la title-track all’inizio del disco riportano la mente a quel mondo orientale a cui la psichedelia di fine ’60 era così legata. il brano ha una storia curiosa: è stato scritto da david coleman in una sessione di due giorni nel giugno ‘84 ai sunset studios di hollywood regalatagli proprio da prince per il suo compleanno; quando prince sentì il risultato di quella sessione volle la canzone per il suo disco, registrò di nuovo tutta la base, lasciò che coleman si occupasse di archi e percussioni etniche e ne fece un’apertura di disco magistrale, l’unico brano della produzione princeiana a condividere un credito con coleman. esiste anche un'altra versione di questo pezzo, eseguita unicamente da prince, che semplicemente introducendo un rullante su tutti i backbeat e semplificando di pochissimo l'arrangiamento risulta molto più lineare e pop, dimostrando la capacità del nano di gestire il felling dei pezzi in modo impressionante tramite i minimi particolari.
la qualità media del disco è leggermente inferiore al solito, con un paio di brani come ‘tamborine’ e ‘the ladder’ che si accontentano di essere dei giochini divertenti (soprattutto ‘tamborine’ con le sue leggerissime allusioni sessuali) e poco più. quando invece il livello si alza, c’è da stare attenti. ‘condition of the heart’, ad esempio, è un capolavoro di creatività straripante ed una prova vocale inarrivabile; parte da un’introduzione rubata in cui piano e sintetizzatori interagiscono in una maniera che sta tra il classico ed il jazz (l’influenza di wendy e lisa, sempre più marcata), stupendo di continuo l’ascoltatore con effetti e suoni inaspettati prima di stemperarsi nella morbida strofa in maggiore, nella quale le capacità vocali di prince, la sua estensione e la sua padronanza timbrica hanno modo di brillare come poche altre volte. c’è una tensione spirituale sottesa al brano che viene enfatizzata dalle armonie vocali di rimando spiritual/gospel. anni più tardi ‘still would stand all time’ cercherà di replicare questo successo con risultati tra l’indifferente ed il ridicolo.
un paio di brani più avanti in scaletta ci si trova di fronte ad ‘america’, uno dei due pezzi più rock del disco, una scia del suono di ‘purple rain’, qui editata a 3 minuti e 40 dai 21 minuti della versione jam da cui è estratta (contenuta nella versione singolo 12 pollici del brano, ovviamente consigliata. ma che ve lo dico a fare.). è un rock da stadio esplosivo e corale ed è stato l’ultimo singolo estratto dal disco. sul beat ossessivo prince canta in maniera sgraziata e schitarra felice, mentre i revolution tessono il fitto e colorato arrangiamento dai toni nettamente funk. nel suo essere molto diretta è quasi l’opposto di ‘condition of the heart’, eppure i due brani riescono a convivere armoniosamente nel disco.
‘pop life’ e ‘paisley park' sono i brani più “semplici” e pop in senso classico,  la prima trainata dal basso in slap e dagli accordi del pianoforte, ariosa e aperta e tremendamente catchy, la seconda più fantasiosa nell’arrangiamento e saltellante sul suo 6/8, due piccoli manuali su come scrivere un pezzo pop perfetto.
menzione poi per il finale del disco, ‘temptation’, un hard-blues chitarristico che travolge con un riff che ricorda quasi i king crimson di ’21th century schizoid man’ nel suo fondere chitarra e sax. l’interpretazione di prince è aggressiva e giunge a vette di violenza vicine a quelle di ‘darling nikki’, con strilli disumani e un suono di chitarra lercio e strabordante. nel finale invece torna la psichedelia, una coda di urletti, versi di sax e sprazzi di suono che rimette il brano in linea col resto del disco.

se già ‘raspberry beret’ è una canzone incredibile, a mio parere va ancora meglio con la sua b-side, la strepitosa ‘she’s always in my hair’ che, per quanto mi riguarda, avrebbe tranquillamente potuto sostituire ‘tamborine’ o ‘the ladder’ innalzando ulteriormente il valore del disco. è un brano pop-rock, ancora una volta dalle tinte psichedeliche, che risale al dicembre dell’83, in piena composizione di ‘purple rain’. si fregia di un paio di trucchetti armonici molto efficaci che creano l’illusione di modulazioni armoniche, portando l’orecchio a spasso mentre la melodia lo culla. forse meno riuscita ma ancora più psichedelica risulta ‘girl’, b-side di ‘america’ composta nell’82 che qui si spinge un pochino oltre rispetto all’album: il beat è una cassa in 4 con pochi orpelli sul backbeat, il brano è retto dalla voce, immersa in armonie oblique (con la collaborazione di vanity), e dai synth acidi che lampeggiano. 
alto anche il livello di ‘hello’, b-side di ‘pop life’ con jill jones ai cori. la canzone contiene riferimenti a fatti reali: prince fu contattato per partecipare al progetto ‘we are the world’; compose ‘4 the tears in your eyes’ e la donò ma si rifiutò di cantare sull’omonima canzone e per questo venne criticato. ‘hello’ è la risposta, molto intelligente, a queste critiche, ed è anche un pezzo micidiale, dal basso inarrestabile e gli arrangiamenti fantsiosi, completamente suonato dal solo prince.


sono tanti e vari i motivi che resero 'around the world in a day’ un mezzo flop e non tutti sono ancora accettabili oggi come giustificazioni per non rendere giustizia a questo disco. è possibile che parte dell'intento del disco fosse semplicemente di sperimentare coi suoni per il gusto di farlo, non sarà al livello di ‘purple rain’ o ‘parade’ ma mostra un lato del suono di prince che raramente è stato approfondito, quella psichedelia che di solito profuma soltanto alcune sue canzoni e qui invece viene prepotentemente in primo piano per la prima ed ultima volta, lasciarsi sfuggire questa sfumature sarebbe un vero peccato.