venerdì 22 luglio 2011

mastodon, "leviathan"




nonostante le accuse dei denigratori, è indubbio che l'heavy metal sia materia in continuo movimento. perlopiù si tratta di evoluzioni derivative del suono (vedi i nevermore, demiurghi di una materia creata dai queensryche negli anni '80, vedi gli opeth che plasmano a loro piacimento concetti derivati in parte dal "death" svedese e in parte dal prog degli anni '70 e così via) ma a volte qualcuno riesce a fare un passo ancora più in avanti e portare suono, intenzione, arrangiamento ed impatto ad una nuova frontiera. è successo nel '96 con "destroy erase improve" dei meshuggah, è successo con "city" degli strapping young lad, in un certo senso è successo con "aenima" dei tool e nel 2004 è successo con "leviathan" dei mastodon. dal momento in cui bill kelliher e brann dailor uscirono dai today is the day di steve austin dopo le registrazioni del monolite "in the eyes of god" venne a crearsi una nuova band che prendeva spunto dalle esperienze passate dei musicisti (formazione completata da troy sanders, basso e voce, e brent hinds, chitarra e voce) e dalle loro mille influenze. influenze che in questo disco vengono frullate insieme a creare un suono particolarissimo e fortemente personale che già oggi fa sentire la sua pesante influenza sulla scena.

i fattori fondamentali per l'esplosione della supernova mastodon sono due, identificabili in mille concetti ma riassumibili in due parole: impatto ed intelligenza. l'impatto arriva dal thrash più evoluto della bay area, dai metallica di master of puppets e via discorrendo, ma conserva anche una innegabile parte derivata dall'hardcore old school nello sparare in faccia dosi inaudite di violenza senza mezzi termini.
l'intelligenza è il mezzo con cui creano questo impatto, sono gli arrangiamenti e le strutture dei brani, in cui spesso risuonano echi del progressive più puro degli anni '70 (non è un caso che dailor abbia affermato in intervista che il suo stile non è altro che frutto dell'impegno di un autodidatta innamorato del phil collins dei bei tempi dietro le pelli dei genesis). tempi dispari, accenti in continuo movimento, momenti acustici ed intimisti ed anche una spruzzata di sana psichedelia, senza dimenticare l'impianto generale del disco: un concept sul "moby dick" di melville. il tutto con bene in mente una semplicità armonica (relativa, certo) di base che garantisce l'impatto di cui sopra.

insomma una pasta sonora studiata e cotta a puntino per lasciare il segno che non fallisce nel suo obiettivo. aprire un disco con "blood and thunder" ti assicura una partecipazione ai festival metal di mezzo mondo con una botta certa, così come piazzare al terzo posto una "seabeast" coi suoi continui spostamenti ritmici fa drizzare le orecchie anche a chi in un disco cerca qualcos'altro oltre alla botta. il suono lungo il disco pesca da vari momenti del metal mondiale, vedi "iron task" il cui riff iniziale strizza l'occhio al death floridiano old school o lo stacco centrale di "megalodon", puro metallo colato degli anni '80 da headbanging sfrenato. poi nella seconda metà dell'album si fa più evidente un discorso a parte relativo forse anche al passato di kelliher e dailor in quanto ex-today is the day, ovvero i legami dei mastodon con la moderna scena americana "schizoide". parlo di quel manicomio moderno che comprende il gruppo di steve austin appunto come i converge, gli isis ma soprattutto i neurosis. dico soprattutto perché è proprio una delle menti della band di oakland, nel caso scott kelly, che collabora coi quattro di atlanta su "aqua dementia", brano in cui l'influenza dei neurosis si fa piuttosto lampante nelle strutture armoniche e nei suoni delle chitarre. questo prima che i mastodon ci riservino il gran dessert, "hearts alive", 14 minuti di suono in continua evoluzione in cui momenti acustici e caldi si interpongono a sfuriate micidiali e melodie da brividi sulla schiena, tutto mantenendo sempre alto il marchio mastodon (di cui parte fondamentale è anche lo stile batteristico di dailor, assolutamente inconfondibile nella sua derivazione settantiana e nei suoi continui fill a ruota libera, cosa sempre più rara al giorno d'oggi in cui sembra che suonare la batteria sia solo tenere il tempo o fare i buffoni a tutti i costi). il disco va poi a chiudersi con la breve "joseph merrick", rilassata nei suoi toni acustici ma ben lontana dall'essere la classica outro buttata lì tanto per. il perfetto commiato per un disco che ha già fatto il giro del mondo insieme ai quattro ragazzi che l'hanno concepito. sono abbastanza convinto che tra dieci-quindici anni se qualcuno vorrà capire la materia sonora pesante dovrà passare dal suono che scaturisce da questo disco, nell'ottica di molti (a cui mi aggrego volentieri) già un classico.