mercoledì 31 marzo 2021

alex lifeson, 'victor'

 


dopo ogni picco c’è una discesa. dopo ‘counterparts’, i rush sono usurati dalle registrazioni e da vent’anni di routine insieme per cui, su “suggerimento deciso” di geddy, il trio si prende una pausa.

nel caso di geddy la pausa è proprio dalla musica, per potersi dedicare alla sua seconda figlia appena nata, per gli altri due è un po’ diverso.


alex ad esempio non ha alcuna voglia di stare lontano dalla musica e si dedica a un progetto che gli girava in testa da un po’ di tempo: un disco solista. aiutato dall’amico bill bell, alex rifinisce i pezzi e inizia a chiamare un po’ di amici per fare delle ospitate. alla batteria viene preso l’amico turnista blake manning, dallo stile decisamente meno cerebrale di neil peart, mentre come cantante viene scelto edwin ghazal degli amici i mother earth che in svariate occasioni hanno aperto i concerti dei rush. in più un pezzo viene cantato da lisa dalbello, in ‘the big dance’ compare il basso di les claypool e in un paio di brani il figlio di lifeson si occupa del programming, per il resto fa tutto il chitarrista, incluso il mix (invero non eccezionale).


ma la musica poi com’è? piena, piena, piena di chitarre. del resto ci saremmo offesi se non fosse stato così. a parte questo, è un disco piuttosto scuro e qualitativamente omogeneo, per dire che non è mai brutto ma raramente convince del tutto. l’iniziale ‘don’t care’ presenta il suono abbastanza crudo dell’album, con le chitarre in primo piano e un’ottima prova vocale di edwin, un bel pezzo rock con gli inconfondibili riff di lifeson a reggere la baracca. stesso discorso per la bella ‘start today’ in cui la voce di dalbello graffia su una manciata di riff tra i più violenti scritti dal chitarrista.

come si diceva, mancano reali guizzi nella scrittura, pezzi memorabili. ’mr.x’ è uno strumentale inutilino che non decolla mai, meglio allora le derive summers/frippiane di ‘at the end’, un pezzo atmosferico con abbondante uso di tastiere che resta un po’ nel regno degli esperimenti ma riesce a coinvolgere soprattutto nel bel finale. ‘sending out a warning’ è probabilmente il miglior pezzo del disco, riff dal groove micidiale, una gran prova di manning alla batteria e le chitarre di alex libere di riempire lo spazio, eppure non riesce veramente a farsi ricordare.

verso il finale ‘the big dance’ fa alzare la testa per la sua estrema ruvidità fatta di chitarre mostruose rette dal basso di les claypool che però il mix non valorizza a dovere, lasciandolo un po’ relegato sullo sfondo. è l’ultimo guizzo prima di un finale abbastanza anonimo che non lascia il miglior ricordo possibile.


‘victor’ è lo sfogo di un musicista che per la prima volta ha tutto lo spazio che vuole; anche se non è imprescindibile come album, è molto interessante per sentire lifeson in un contesto diverso dai rush e mette in mostra le sue tendenze sempre più hard rock che si faranno decisamente sentire in ‘test for echo’ e ‘vapor trails’. un disco piuttosto trascurabile per chiunque non sia fanatico dei rush che però risulta interessante se non altro perché rivela cosa passi per la mente di lifeson senza il filtro della sua band.