giovedì 19 marzo 2020

today is the day, 'no good to anyone'


una delle cose più belle di ‘no good to anyone’ è che conferma il fatto che i today is the day sono entrati in una nuova fase: ‘animal mother’ prometteva ma non era del tutto compiuto mentre i tre dischi prima risentivano di una poca necessità, per quanto mai brutti nessuno dei tre riusciva ad essere veramente incisivo, ognuno per motivi diversi.
‘no good to anyone’ è incisivo.

le premesse per il disco sono le seguenti: nel 2014 il furgoncino di austin viene travolto da un veicolo fuori controllo che lo ribalta e lo manda fuori strada, frantumandogli un numero non indifferente di ossa. durante la convalescenza, il suo amato cane di tre anni si becca il morbo di lyme e viene soppresso, non prima di aver trasmesso la malattia a steve che passa i mesi seguenti all’inferno. questo disco è la conseguenza.

a un primo impatto ‘no good to anyone’ è un disco molto strano. scuro, emotivo, rabbioso, tutto questo non sorprende certo, quello che sorprende è un equilibrio perenne fra accettazione e rassegnazione, tra l’essere sopraffatti dalla vita a l’aver accettato ciò che di buono si può trovare in essa. i momenti lirici più limpidi parlano di amore, amicizia e necessità e sembrano davvero fare la parte dei punti fermi in mezzo alla rabbia e alla foga. che poi, foga. ci sono momenti col sangue agli occhi e sono ovviamente tra i migliori ma non aspettatevi la schizofrenia di ‘willpower’, gli assalti di ‘in the eyes of god’ o le bordate di rumore infernale di ‘sadness’, quella guerra è finita anni fa, non sarebbe sincero riproporla e se c’è una cosa di steve austin su cui non si è mai potuto discutere, questa è la sua sincerità artistica.

quello su cui si può discutere, soprattutto negli ultimi 15-20 anni, è la sua scelta dei musicisti che lo accompagnano. non sto a girare in tondo, in questo caso mi riferisco soprattutto al batterista tom bennett che, in più momenti, mina il flusso dei pezzi con una prestazione a dir poco mediocre (la pessima doppia cassa in ‘son of man’ o ‘you’re all gonna die’ ne è prova piuttosto evidente ma gli inciampi sono un po’ ovunque).

l’inizio dell’album è pazzesco.
come molti altri dischi prima di lui, ‘no good to anyone’ ha la fortuna/sfortuna di aprirsi col pezzo migliore dell’album, la stupefacente title-track, un misto di paranoia crescente in cui chitarre e synth dipingono uno scenario desolante su cui la voce di austin canta una melodia (!) lontana e sfibrata prima che un crescendo digrigni i denti per poi esplodere in un’onda ai limiti del black metal che spazza tutto. e quando è la voce di steve austin a squarciarsi urlando “i hate everyone”, per una volta possiamo crederci, al contrario di tante altre.
‘attacked by angels’ è meravigliosa, riporta ai primi tre dischi del gruppo con un 5/8 sbiellato cavalcato dagli arpeggi paranoici della chitarra di austin prima che un break pesantissimo porti fino alla fine del pezzo tra stacchi e melodie angoscianti. in modo simile ‘son of man’ rotola addosso all’ascoltatore prima di un’apertura con chitarre fragorose e un synth raggelante che ondeggia sul tappeto di doppia cassa, è la visione psichedelica di austin, un muro di suoni che stordisce e disorienta.

‘burn in hell’ propone un hard rock settantiano che ricorda ‘pain is a warning’ ma finisce con il minuto più parossistico del disco, l’unico momento in cui si palesano (nella forma) i vecchi today is the day. si muove su binari simili anche ‘mercy’ che si chiude con un riffazzo seventies e austin che ci urla sopra; ‘cocobolo’ sembra cercare riparo con strofe di basso e batteria in mezzo alle chitarre sferraglianti del ritornello.
‘callie’ è quasi tenera, un’oasi di placida positività che si tende solo nel finale senza sfogo, quasi per imposizione, un momento struggente dedicato al povero cane deceduto (il testo nella sua semplicità è commovente). in mezzo al brano viene da chiedersi se si stia ascoltando lo stesso disco. ‘oj kush’ ci ricorda che sì, sono i today is the day, un’aggressione tutta sbilenca come ai bei tempi.
‘born in blood’ riporta in primo piano la tensione psicotica, andando ancora a riprendere l’instabilità sonora dei primi album, mettendo in secondo piano l’impatto per puntare più sullo sfinimento e ‘mexico’ non va lontano, lasciando covare la rabbia sotto a strati di chitarre assordanti su una ritmica inarrestabile ma aperta e piuttosto seduta, bellissime le melodie vocali catatoniche e trasandate.
il finale è affidato a ‘rockets and dreams’ che, come atmosfera, fa coppia con ‘callie’ con un suono acustico, riverberato e desolante.

mix e mastering dell’album sono ad opera di austin come (quasi) sempre e sono una questione strana: i suoni presi singolarmente sono belli, soprattutto le chitarre (grazie al cazzo), pieni e risonanti; manca forse un pochino di impasto, è tutto molto separato ma il carattere dei singoli strumenti crea l’atmosfera da solo per cui non sembra che manchi nulla, è solo strano e spiazzante. il livello di compressione è ottimale per un disco di questo genere e non distrugge i timpani più del dovuto. 
(nerd alert, mix e mastering sono stati fatti con harrison mixbus 32c, un daw che simula tutta la circuiteria di un banco analogico harrison 32c con controlli di saturazione che imitano l’effetto del nastro, molto consigliato se siete smanettoni)

allora, i capolavori dei today is the day restano altri (‘willpower’, ‘temple’, ‘sadness’) e quei tempi sono lontani, non tanto per la qualità delle composizioni quanto per l’istinto omicida e la sovversione sonora. ciononostante, ci troviamo di fronte a quello che è probabilmente il loro (suo) miglior disco da ‘axis of eden’ (sottovalutato), se non altro per la voglia di rinnovamento e la capacità dei pezzi di lasciare un segno. potrebbe addirittura essere un buon punto d’ingresso se non avete mai avuto a che fare con l’inferno sonoro di austin, presentando più melodia e meno massacro rispetto al passato.
ad ogni modo discone, speriamo primo di una nuova serie.