domenica 15 marzo 2020

rush, 'permanent waves'



dopo aver registrato un capolavoro, esistono due vie: o si cerca di replicarlo o si va in tutt’altra direzione. tentare di replicarlo vuol dire rinunciare all’evoluzione per tentare un manierismo (che può comunque essere ottimo), cambiare direzione è prova di coraggio, intelligenza e coerenza artistica. provate a indovinare che strada hanno scelto i rush dopo ‘hemispheres’.
il tour concluso è stato un successo, finalmente il gruppo ha stabilità economica, i fan continuano ad aumentare e la casa discografica li lascia fare quello che vogliono. curiosamente, appena questo succede, il gruppo decide di spostare le coordinate sonore verso brani più brevi, più semplici e più efficaci melodicamente. più commerciali? quella è solo una conseguenza. l’intento del gruppo era di allontanarsi da ciò che avevano già fatto: invece che mettere insieme frammenti per comporre una suite, i rush scelgono di elaborare ognuno di questi frammenti e di farne canzoni, con un’unica e precisa idea alla base ed uno svolgimento strutturale più canonico.

le registrazioni del disco furono a dir poco tranquille ed agiate: dopo sei settimane di vacanza dopo la fine del tour, viene deciso niente più galles, il gruppo con terry brown si rifugia al le studio di morin heights nel quebec, quindi a pochi chilometri da casa. per farvi capire il livello, a poca distanza dallo studio uno chef parigino aveva il suo ristorante e il gruppo poteva farsi consegnare ogni pasto a domicilio; inoltre si erano costruiti in giardino un campo da pallavolo con tanto di riflettori per le partite notturne. lavoro, duro lavoro, sempre lavoro.

l’inizio non potrebbe essere più rappresentativo delle intenzioni del gruppo: ‘the spirit of radio’, uno dei loro classici più classici, è retto da un semplice (ma per niente facile da suonare) lick di chitarra con un suono vagamente alieno, un 4/4 su cui però geddy e neil incastrano una serie di obbligati infernali prima di cambiare tempo per poi arrivare all’apertura del tema e alla strofa. la melodia la fa da padrona ma l’arrangiamento è così studiato e perfetto da non far perdere neanche un grammo di attitudine prog, è un pezzo radiofonico e piacione ma tremendamente difficile e stronzo da suonare e queste sono le coordinate su cui più o meno si muoverà tutta la futura carriera del gruppo. colpiscono la modernità della musica (che d’ora in poi terrà molto più conto di ciò che succede nel mondo, new wave in particolare) e la precisione e pulizia della registrazione, per l’intenzione sembra di trovarsi di fronte a un gruppo rivoluzionato (shock che si riproporrà qualche anno più tardi con ‘signals’).
‘freewill’ è un altro classico tra i classici, un pezzo che, come espresso da peart nel bellissimo testo, non ha paura di cambiare e adattarsi al momento, tagliando misure, cambiando tempo e giocando di incastri strumentali ma senza mai dimenticare la melodia.
‘entre nous’ e ‘different strings’ sono più legate al passato, la prima rockeggiando mentre si interroga sulle relazioni interpersonali (un tema a cui è legato l’intero album) e la seconda rilassando i toni con una ballata che mostra le personalissime scelte di arrangiamento del gruppo, con una prova maiuscola di geddy al basso.

‘jacob’s ladder’ e ‘natural science’ sono forse gli ultimi brani propriamente progressive scritti dal gruppo e nessuno dei due tocca i 10 minuti di durata, ulteriore segno della nuova capacità di sintesi e focus del gruppo. ‘jacob’ è scritta durante i soundcheck di un breve tour di 4 settimane che il gruppo ha fatto appena prima di entrare in studio, è un pezzo fortemente atmosferico in cui tastiere e basso synth ricoprono un ruolo fondamentale; la struttura è data da due crescendo di gruppo, entrambi basati su tempi dispari e metriche composte dall’andamento largo.
‘natural science’ invece è puro progressive, uno dei pezzi più amati dai fan musicisti dei rush, 9 minuti di evoluzioni sonore, repentini cambi di tempo e tecnicismi mai fini a se stessi ma sempre legati al meraviglioso testo in cui peart si interroga sulla scienza e sulla natura dell’evoluzione. la prestazione di ogni singolo musicista è mostruosa ma in nessun momento si ha la sensazione che il brano sia un altro ‘exercise in self-indulgence’, la narrazione è lineare e cattura per la sua intensità, prima ancora che per le acrobazie strumentali.

‘permanent waves’ è una mirabile opera di sintesi e prova concreta della continua evoluzione della musica dei rush, un disco più maturo e curato che segna uno standard per il futuro e si pone come modello da superare per le creazioni successive. o forse, molto più semplicemente, un disco bellissimo da consumare a ripetizione.