mercoledì 11 aprile 2018

prince and the revolution, 'purple rain'


ed eccoci qui, il momento in cui prince diventa ufficialmente un fenomeno mondiale, l’esplosione su grande scala. il successo di ‘purple rain’ è tale che la maggiorparte delle persone conoscono solo questo disco di prince o addirittura solo la title-track. com’è stato possibile questo successo? i fattori in gioco sono tanti, sedetevi comodi e parliamone.

‘1999’ aveva avuto un successo enorme e aveva presentato il personaggio che prince avrebbe interpretato per il resto degli anni ’80, un’estetica fatta di glitter, pose provocatorie, un’oscillazione costante tra sciupafemmine efebico e chitarrista rock macho, il tutto immerso in un viola profondo, a metà tra il vellutato ed il minaccioso. 
musicalmente poi aveva creato un mondo, solidificando il suono di minneapolis ed introducendo già una parte rock bianca che ora prenderà il sopravvento.
la musica pubblicata su ‘purple rain’ è stata tutta scritta tra l'83 e l’84, a parte ‘baby i’m a star’, una cui versione demo viene fatta risalire a fine ’81. questo dimostra, ancora una volta, una chiarezza di intenti invidiabile da parte di prince: il cambio di suono rispetto a ‘1999’ non è indifferente, ci si aspetterebbe un disco di transizione per arrivare ad una forma compiuta mentre prince, grazie alla qualità assoluta delle composizioni, riesce a centrare l’obiettivo al primo colpo.
come vedremo più avanti, la quantità di materiale composto in questo periodo è enorme (duane tudahl ci ha scritto un intero libro, “prince and the purple rain era studio sessions: 1983 and 1984”), tanto che molte di queste canzoni finiranno in dischi successivi (‘raspberry beret’ e ‘pop life’ su ‘around the world in a day’ ad esempio) o come b-side di singoli (’17 days’, ‘erotic city’, ‘god’, ‘another lonely christmas’ prima, poi la stupenda ‘she’s always in my hair’ e ‘girl’) oppure dimenticate nei meandri della sconfinata vault di paisley park. 

ma veniamo al disco in sé finalmente. no, non è vero, manca ancora un po’. questo perché  ricordiamoci che il disco non è altro che la colonna sonora del film, almeno nella testa di prince; poi che il film sia un’opera assolutamente trascurabile e il disco un capolavoro è un altro discorso, il nano comunque ha investito una quantità importante di tempo e soldi nel progetto cinematografico ed ha anche avuto un buon successo nelle sale. è il film migliore di sempre? beh sì, certo, è un film con prince, ma a parte questo particolare, no, non lo è neanche alla lontana. è un film che parla di conflitti su vari livelli senza approfondirne veramente nessuno, resta un po’ per aria e funziona grazie all’immagine di prince e dei revolution, altrimenti nessuno se lo sarebbe mai filato.
ecco, i revolution. finalmente hanno modo di farsi sentire in buona parte dei nuovi pezzi e questa volta non solo come coristi. i tre pezzi finali dell’album, ‘i would die 4 u’, ‘baby i’m a star’ e ‘purple rain’, giungono direttamente da un live del 3 agosto 1983 al first avenue di minneapolis e includono quindi la lineup completa: bobby z alla batteria, brown mark al basso, wendy melvoin alla chitarra ritmica, lisa coleman e matt fink alle tastiere. questa è la band che accompagnerà prince per altri due dischi (editi) dopo ‘purple rain’ e per i relativi tour, prima che venga sciolta dallo stesso prince prima della pubblicazione di ‘sign o the times’.

l’organo che apre ‘let’s go crazy’ ha un valore religioso per un fan di prince, è il segnale dell’inizio di una festa che non finisce mai, è la campanella di fine lezioni, è il suono del treno della metro quando rientri il venerdì sera. il tono ieratico con cui poi veniamo invitati a perdere ogni controllo non fa che accentuare questo aspetto religioso, discendente in qualche modo di quelle note iniziali di ‘a love supreme’ di coltrane. nello svolgersi del pezzo si viene investiti da un’onda di suono a cui è impossibile resistere, fino a quel momento in cui il fiato si ferma e si rimane sospesi con un feedback di chitarra lancinante, prima del pirotecnico finale. c’è ancora quel tono da rituale post-apocalittico di ‘1999’ ma questa volta dopo la linn drum non entra un esercito di synth, bensì una sezione ritmica rock che sposta completamente il baricentro del suono. il funk è ancora presente ma ‘purple rain’ è uno dei dischi più bianchi di prince e sicuramente il suo disco più rock degli anni ’80: le schitarrate e doppia cassa in ‘darling nikki’ sono difficili da ricondurre alla tradizione afroamericana, così come le trame pop di ’take me with u’ o lo svolgersi di ‘computer blue’ (soprattutto nella sua versione integrale, ci arriviamo poi) (ve l’avevo detto di mettervi comodi, ne ho ancora per un bel po'). 
questo è poi un disco che crea un precedente importantissimo: uno dei suoi singoli di maggior successo è ‘when doves cry’, ovvero il primo pezzo funk senza basso di prince, due anni prima di ‘kiss’. la canzone non solo sta in piedi comunque ma si eleva fino ad essere uno dei brani migliori mai scritti dal nano grazie ad un riff di tastiera memorabile e ad un’interpretazione drammatica e profonda della voce.
come dicevo prima, le basi per il trittico finale sono state registrate dal vivo al first avenue di minneapolis; su queste poi sono state operate sovraincisioni varie per arrivare al risultato finale ma la carica dell’esecuzione live si fa sentire sia in ‘i would die 4 u’, gioiello melodico ammantato di una vaga psichedelia che tornerà nel disco successivo, che in ‘baby i’m a star’, pezzo tirato e festaiolo che fa da perfetto perambolo al finale dell’album. e che vi devo dire del finale dell’album? è il pezzo più famoso di prince, è diventato il suo simbolo, è la canzone che tutti volevano sentire ai suoi concerti. è una ballata lenta e molto aperta, con ampi spazi lasciati alle code dei suoi, ai riverberi, allo spazio tra le note; conta su una delle migliori performance vocali che prince abbia mai registrato, nonché su un assolo di chitarra che mostra tutto il suo feeling sullo strumento. è graziata da un trio d’archi arrangiato da david coleman, fratello di lisa che si occupa di tutti gli archi nel disco (un fatto non da poco visto che di lì a breve da ‘parade’ inizierà la collaborazione con il maestro clare fischer). una canzone perfetta, inattaccabile da ogni punto di vista, che rappresenta il culmine emotivo di un album (e film) pseudo-biografico in cui particolari reali della vita di prince si intersecano a storie e leggende che lo accompagneranno per tutta la carriera (il rapporto con suo padre era buono, tanto che a volte gli regalava crediti per le canzoni).

se il materiale pubblicato sul disco è praticamente perfetto, quello rimasto fuori non è tanto da meno, anzi. partiamo da ‘computer blue’, 3:59 sul disco, 12:19 nella sua versione integrale, la cosiddetta ‘hallway speech version’, recentemente pubblicata sulla ristampa di ‘purple rain’ (osceno e criminale il remaster ma il materiale bonus è assolutamente da avere, incluso il dvd con l’intero concerto al carrier dome di syracuse dell’85). in quasi un quarto d’ora di musica, prince riesce a cambiare continuamente feeling, passando dalla parte cantata a una lunghissima sequenza strumentale in cui, su un beat costante, vengono continuamente introdotti temi e suoni nuovi, prima di deragliare in una coda rumoristica. la sintesi dell’album è comunque un’opera incredibile ma questa versione mostra ancora una volta la capacità di prince di operare su lunghi brani.
ci sono poi le b-sides: ’17 days’, ‘erotic city’, ‘god’ e ‘another lonely christmas’. se ‘christmas’ può essere trascurata (un pezzo rock da stadio non brutto ma neanche eccelso), le altre tre canzoni sono invece assolutamente a livello dei brani dell’album. ‘god’ esiste in due versioni, una è una ballata di 4 minuti per piano, voce e synth, molto sentita e dagli acuti impressionanti, l’altra è uno strumentale di otto minuti che si inerpica addirittura per territori progressive, trainato dalla chitarra selvaggia e avvolto in pad sintetici. dal vivo poi era un’altra cosa ancora, un dialogo parodistico tra prince e la voce di dio che era più scena che musica.
in ’17 days’ si sente pesantemente la mano dei revolution, soprattutto di wendy e lisa: il riff portante di tastiera è loro e arriva da una jam in studio. il pezzo ha una melodicità tutta sua, con ancora una volta quel tocco psichedelico e sixties che si sposa alla perfezione con il lato più naive di prince. ‘erotic city’ invece sembra provenire già da ‘lovesexy’ (non a caso aprirà i concerti di quel tour nell’88/89), un pezzo dance scarnificato che inizia ad esplorare il mondo dell’effettistica vocale accelerando il nastro della voce principale, un espediente che in futuro prince utilizzerà pesantemente. 
nel frattempo vengono composti brani anche per i ‘protetti’, ad esempio i the time e sheila e, futura batterista/percussionista/corista della band di prince che in questo periodo esordisce sul mercato con ‘the glamorous life’, disco trainato dall’omonimo singolo di grande successo… scritto da prince. ci sono poi le vanity 6, per le quali in questo periodo viene scritta ‘g-spot’, divertente pezzo danzereccio di gran lunga più interessante nella versione cantata da prince. viene anche scritta ‘manic monday’, regalata poi alle bangles e pubblicata nell’86 su ‘different light’.
diverso il destino invece di ‘a place in heaven’, delicata ballata in falsetto reperibile in due versioni, una cantata da prince e registrata in questo periodo, l’altra con lisa alla voce principale, ipotizzata nella scaletta di ‘dream factory’, album poi abortito di cui varie canzoni finiranno in ‘sign o the times’.

chiudiamo questa rassegna degli inediti con due dei brani più sperimentali mai registrati da prince, ovvero ‘cloreen bacon skin’ e ‘billy’ (o ‘billy’s sunglasses’, dagli occhiali che porta il personaggio di billy sparks nel film ‘purple rain’). la prima verrà pubblicata solo nel ’98 su ‘crystal ball’, è un duetto con prince al basso e voce e morris day alla batteria, un quarto d’ora di improvvisazione con la voce filtrata di prince che racconta di una sua fantomatica prima moglie molto grassa chiamata, appunto, cloreen. l’esperimento non è un caso isolato, troviamo un suono molto simile in bob george sul ‘black album’, ad esempio, altro delirio su base basso/batteria funk e zozza. ‘billy’ invece è un’esperienza. è un’improvvisazione di gruppo durante una prova nell’83 in cui prince suona la chitarra in un modo estremamente rock, come gli si sentirà fare in abbondanza più avanti nella carriera. il beat incessante e le tastiere di fink sono una cornice perfetta per questo sproloquio vocal/hendrixiano che dura ben 51 minuti, un viaggio non per tutti ma sicuramente consigliato a chi vuole farsi un’idea della versatilità di prince.


bene, è stata lunga ma siamo giunti alla conclusione. come avrete capito, l’album ‘purple rain’ è solo la punta di un iceberg chiamato prince. è la summa della produzione di quel periodo e ne è sicuramente una rappresentazione fedele, per quanto sintetica. è la fotografia di un momento in cui la creatività di prince cresceva di pari passo con le sue capacità e conoscenze, aiutato anche dalla musica che wendy e lisa gli facevano ascoltare (sorpattutto jazz e classica, influenze che esploderanno su ‘parade’). è uno dei momenti di sinergia migliore insieme a una band che, per quanto fondamentale nell’evoluzione dell’artista americano, durerà un attimo e scomparirà nel 1986, solo due anni dopo la pubblicazione di ‘purple rain’. è la dimostrazione che anche negli anni ’80, con i suoni degli anni ’80, si poteva fare grande musica da tramandare alle generazioni future e da conservare nella memoria collettiva.

ps: alcuni dei brani che ho citato nella seconda parte dell'articolo sono molto difficili da reperire. il mio consiglio è di cercare in giro per internet quello scrigno meraviglioso chiamato 'work it 2.0', una raccolta di 34 (sì, 34) cd di materiale inedito che è trapelato negli anni dalla vault, brani inediti, demo, versioni alternative, etc., tutto diviso cronologicamente. se foste interessati contattatemi in privato.

lunedì 9 aprile 2018

prince, '1999'


quando si analizza l’opera di prince, bisogna stare molto attenti a non cadere in tranelli e luoghi comuni. ad esempio, chi parla di ‘purple rain’ come dell’apice del "suono prince” dice stronzate: ‘purple rain’ è un suono di passaggio, troppo sbilanciato verso il rock rispetto all’estetica princeiana, tanto quanto il suo bistrattato successore ‘around the world in a day’. questo non lo rende affatto un disco inferiore poiché coincide con alcune delle composizioni migliori del genio di minneapolis, oltre a godere di una produzione perfetta che riesce a glorificare quel suono rock e a vestirci i pezzi. i momenti in cui veramente si è definito il suono prince sono ‘dirty mind’, ‘1999’ e ‘lovesexy’ (disco di qualità leggermente inferiore (qui mi faccio nemici) ma dalla ricerca sonora incredibile), poi semmai dopo ‘the gold experience’ e ‘the rainbow children’ ma è tutt’altra storia. ‘dirty mind’ ha settato i parametri di quel funk secchissimo con i synth a sostituire i fiati, ‘1999’ ha aggiunto l’epos, la grandeur che non ha più abbandonato i dischi di prince, ‘lovesexy’ ha mostrato una strada per portare tutto ciò nel decennio successivo (strada non seguita, se non da un episodio isolato come ‘thieves in the temple’).

oggi voglio parlarvi di ‘1999’, album dell’82 che ha mostrato al mondo l’immagine ed il potenziale del prince che tutti conosciamo. la lavorazione dell’album è iniziata alla fine del 1981, il disco non contiene canzoni composte in precedenza. l’album precedente, ‘controversy’, è probabilmente l’unico anello debole di una catena perfetta che va da ‘dirty mind’ a ‘lovesexy’, in quanto reitera la formula sonora del precedente disco senza muoversi troppo, pur contando su almeno 2-3 pezzi fenomenali. con ‘1999’ la musica di prince compie il grande passo, esce dal ghetto della musica nera e si propone a tutto il mondo come nuovo paradigma almeno del funk, se non del pop da fm: i primi due pezzi da soli bastano per accorgersi di questo, si chiamano ‘1999’ e ‘little red corvette’. c’è una linea che arriva da james brown, passa per sly e stevie wonder e arriva a prince. nel 1982 la grossa differenza tra prince e i suoi predecessori era semplice quanto tremenda: mentre brown e wonder cercavano di forzare la propria musica nell’estetica degli anni ’80, quella di prince ci nasceva. i suoni sintetici di ‘little red corvette’ sono alla radice del pezzo tanto quanto la melodia, ‘part-time lover’ o ‘isn’t she lovely’ di wonder avrebbero potuto essere state scritte dieci anni prima e poi riarrangiate. la grandeur di cui dicevo prima esplode nel ritornello di ‘little red corvette’ e suona perfettamente in bilico tra pacchiano, drammatico ed epico (come la maggiorparte della miglior produzione pop degli ’80) senza mai cadere nel ridicolo (come la maggiorparte della produzione pop degli anni’80). quando prince vuole far ridere lo fa apposta, cerca il divertimento spensierato e ti travolge con ‘delirious’, un synthabilly deficiente quanto efficace e divertente. poi tanto due tracce dopo spazza via tutto con ‘d.m.s.r.’: il gene james brown (‘funky drummer’: beat incessante senza variazioni tenuto ad oltranza) è presente ma il pezzo più che far pensare a ciò che c’è stato prima fa pensare a quello che ci sarebbe stato dopo: anticipa la tendenza della dance ai ‘mega mix’ dai minutaggi smisurati di almeno 5-6 anni. parliamo di un pezzo che riesce ad avere un groove inarrestabile con una batteria programmata, grazie alla mano divina del nano sulla chitarra, grazie agli incastri di synth e basso nell’arrangiamento, grazie ad una verve vocale a livelli inarrivabili.
se poi dovesse venire il dubbio di trovarsi davanti a un disco paraculo, ci pensa il pezzo migliore di tutto l’album a dare risposte: ‘something in the water’ è una composizione sublime, dalle trame melodiche oblique e ipnotiche, dal beat ricercato, fittissimo ma non invadente e scosso da algide dissonanze sintetiche, i kraftwerk con sly stone che reinventano il pop.
l’atmosfera da (post?)apocalisse futuribile incombe su ogni momento del disco, il cielo è sempre viola (ben più che in ‘purple rain’) e la fine del mondo è una prospettiva tangibile, solo che invece di disperarsi e nascondersi prince organizza un’orgia generale per le strade e tutti ballano e ci danno dentro. anche in ‘lady cab driver’, dove fondamentalmente si parla di un amplesso in taxi (le macchine sono sempre piaciute a prince, da ’dirty mind' alla corvette rossa alle allusioni in ‘endorphinmachine’), i suoni gelidi dipingono tutto di colori alla blade runner mentre il pezzo cresce insieme ai gemiti della tassista e si dipana per 8 minuti abbondanti.
ci sarebbe da citare anche il fatto che per la prima volta in copertina compare il nome dei the revolution, per quanto nascosto (è scritto al contrario nella 'i' di 'prince' in copertina). i revolution hanno effettivamente collaborato al disco (soprattutto wendy e lisa) ma unicamente in qualità di coristi (e le lead assegnate in '1999') o battimani, la scritta "produced, arranged, composed and performed by prince" campeggia in bella vista sul retro del disco, bisognerà aspettare 'purple rain' per sentirli effettivamente suonare su disco.

nonostante la durata considerevole (71 minuti, doppio lp) non c’è un solo momento in cui ‘1999’ perda il “flow”, è un disco magistralmente focalizzato, dal suono fortemente distintivo e basato su una ricerca timbrica profonda, oltre al lavoro di scrematura che ha portato alla solita valanga di pezzi inutilizzati.
dall’ascolto delle outtakes è impressionante notare come la visione artistica di prince fosse già avanti di almeno un paio di dischi: se ‘moonbeam levels’ fosse apparsa su ‘around the world in a day’ nessuno probabilmente avrebbe pensato che fosse un pezzo di 5 anni prima. ‘purple music’, come ‘d.m.s.r.’, anticipa la tendenza dei remix infiniti nella musica dance, dieci minuti di flusso dance-funk con inaspettate aperture melodiche, mentre ‘extra lovable’ è un pezzo bellissimo, melodico e trascinante che finisce in una coda effettata e distorta (sorvoliamo sul testo…). ‘no call u’ e ‘turn it up’ invece stanno dalle parti di ‘delirious’ e delle versioni di ‘can’t stop this feeling i got’ precedenti la pubblicazione, rockabilly divertente e divertito, nulla di imprescindibile ma neanche di orrendo. risale a quest’epoca anche la prima versione di ‘we can funk’, ancora chiamata ‘we can fuck’, 10 minuti che mettono in mostra non solo il talento melodico di prince ma anche la sua capacità compositiva, tramite un lungo crescendo perfettamente gestito anche se con strumentazione abbastanza minima.
ci sono poi le b-side dei singoli, e qui parliamo di almeno altre due perle fondamentali: ‘irresistible bitch’ (b-side di ‘let’s pretend we’re married'), ‘how come you don’t call me anymore’ ('1999'), la prima un funk secco e sexy (ma va?) che sarà fisso in scaletta nel tour di ‘purple rain’, la seconda una splendida ballata pianistica dalle venature gospel che verrà reinterpretata (molti) anni dopo da alicia keys e che mette in bella mostra il corredo afroamericano di prince. c’è anche ‘horny toad’, b-side di ‘delirious’ che prosegue in maniera trascurabile il discorso rockabilly, non certo un gioiello.


come avrete intuito, di carne al fuoco ce n’è una quantità imbarazzante. il fatto è che anche la qualità di questa carne è imbarazzante ma in senso positivo: anche i pezzi peggiori non sono mai brutti e sono proprio pochi. il resto è il frutto di una visione musicale avanti di anni, una coesione sonora che è solo un punto nel percorso di prince ma che crea un nuovo paradigma per il pop mondiale. e il mondo non sta certo a guardare: 4 milioni di copie vendute solo negli usa, 5 singoli e uno spettacolare tour in giro per l’america parlano chiaro. l’esplosione completa era vicina, ‘purple rain’ era già dietro l’angolo ma con ‘1999’ prince ha impresso un marchio a fuoco nella musica di fine ‘900, cosa che in pochi nel pop sono riusciti a fare.

prince, 'graffiti bridge'


tra il 1980 e il 1989 si può dire che prince non abbia sbagliato niente. il disco meno riuscito del decennio è ‘controversy’, che comunque conta sulla title-track e ‘let’s work’ come punte di diamante, più una manciata di pezzi che magari non sono eccezionali ma di certo non annoiano mai. dal ’90 in poi è un’altra storia, dischi altalenanti, scenate da primadonna e quant’altro. ‘graffiti bridge’ però è il disco con cui si aprono gli anni ’90 di prince ed è una grandissima paraculata: praticamente è un best of di materiale inedito scritto nel decennio precedente, conta quindi su un livello di ispirazione ancora altissimo, nei suoi momenti migliori compete coi capolavori da poco passati, nei peggiori lascia presagire lo sbando che seguirà di lì a poco.

partiamo dalla sua pecca peggiore, l’essere colonna sonora di una merdazza di """film””” girato col culo, recitato peggio e scritto… no, non son convinto che qualcuno abbia scritto qualcosa. spero sinceramente di no. se già ‘purple rain’ non era esattamente un’opera cinematografica imprescindibile ma stava in piedi in qualche modo e ‘under the cherry moon’ provava almeno ad avere una trama (demenziale, sul serio), qui siamo di fronte ad un abominio che non auguro a nessuno se non per ridere davvero tanto. lasciamo quindi perdere questa cosa, facciamo finta che non sia mai successa e parliamo del disco.
i revolution hanno fatto il loro corso e già da qualche disco non esistono più se non a pezzi sparsi qua e là, il nanetto si è ripreso il controllo totale della sua musica e la sua stagione d’oro sta tramontando sulle note della colonna sonora del ‘batman’ di tim burton così come tutti gli anni 80. ma lui non contento vuole reinvetarsi per entrare nel nuovo decennio ed ecco arrivare la new power generation, nuovo supergruppo che accompagna il signor nelson per buona parte dei ’90. quindi sono loro che suonano su 'graffiti bridge’? no, suona quasi tutto prince e gli altri stanno a casa, a parte per qualche coro.

è un disco che poteva durare quasi metà del tempo totale (70 minuti, benvenuti anni ’90) e che ogni tanto si perde via in cazzatine che lasciano il tempo che trovano ma cercano giustificazione nella presenza di ospiti più o meno illustri. l’album si può dividere in due tra pezzi riciclati dal passato e pezzi nuovi. nella seconda categoria troviamo almeno una perla, ‘thieves in the temple’, immersa in un’atmosfera esotica e trainata da un beat tamarro e martellante, un esempio perfetto della capacità di arrangiatore creativo di prince; troviamo nella stessa categoria anche quelle cazzatine di cui sopra, siparietti tragicomici come ‘release it’, ‘love machine’, ‘shake!’ (tutti pezzi dei time), momenti inconcludenti e momenti carini, per quanto non memorabili, come ‘elephants and flowers’.

quando invece parliamo di pezzi vecchi… beh c’è poco da fare. a un disco che può mettere in fila ‘we can funk’ (con george clinton) e ‘joy in repetition’ cosa gli vai a dire? la prima arriva da precedenti versioni torrenziali (la prima dell’83) che arrivavano a più di dieci minuti di durata, c’è chi preferisce di gran lunga queste versioni a quella edita su ‘graffiti bridge’, io non sono d’accordo: sono sicuramente diverse, le altre suonano più ‘geniune’ ma questa suona davvero bene e l’apporto clintoniano e dei vari coristi e fiatisti (eric leeds, atlanta bliss oltre a wendy e lisa non accreditate) dona un’aria quasi epica alla coda finale. ‘joy in repetition’ invece arriva dal marasma di materiale scritto intorno all’86, tutta quella roba che non è mai finita su ‘dream factory’, ‘crystal ball’ o ‘sign o the times’; è un pezzo ipnotico, venato da una malinconia profonda e straziato sul finale da un solo di chitarra da tramandare ai posteri. è buffo che anche l’incredibile ‘the question of u’ si possa descrivere quasi con le stesse parole (questa però risale all’85), beat ipnotico, una prestazione vocale strappamutande e un assolazzo di chitarra come solo lui sapeva fare.
‘can’t stop this feeling i got’, 'new power generation', ‘tick tick bang’, ‘melody cool'… tutti pezzi vecchi o stravecchi  (‘can’t stop’ è dell’82 così come 'bold generation' da cui deriva 'npg' che mantiene la traccia di batteria originale suonata da morris day) riarrangiati, risuonati, manipolati in qualche modo, tutta roba carina ma nulla di irrinunciabile, così come la versione spiritual/gospel di ‘still would stand all time’, questa sì ben più interessante nelle sua versioni precedenti.

non è un best of, non è un disco nuovo, non è un disco di b-sides… è una via di mezzo tra tutto questo e, come sempre in questi casi, il risultato è altalentante: momenti di genio che vi daranno la pelle d’oca e momenti che, alla meglio, vi faranno sorridere un po’ imbarazzati. 


lunedì 25 dicembre 2017

distant zombie warning top ten 2017

poche balle, veniamo subito ai dischi che quest'anno son tanti, per fortuna.



ulver, 'the assassination of julius caesar’

poco da dire, un disco a suo modo perfetto in cui la serietà e profondità dei contenuti lirici si sposano alla musica più tamarra e divertente mai scritta dagli ulver.’rolling stone’, ’so falls the world’, ’southern gothic’ o ’transverberation’, è un filotto di canzoni inattaccabili. se è un picco nella loro discografia, è abbastanza ovvio che quest’anno nessuno li abbia battuti.



pain of salvation, 'in the passing light of day’

dopo la pessima vicenda della cacciata di ragnar zolberg mi sono chiesto se mettere questo album in top ten o meno. alla fine però onore a lui e all’inaffondabile gildenlow per aver riportato i pain of salvation ai livelli artistici di un tempo. o quasi. non c’è dubbio che di canzoni come ‘on a tuesday’, ‘meaningless’ o ‘full throttle tribe’ non se ne sentivano da un bel po’.



wadada leo smith, ‘najwa’

il trombettista americano sta vivendo una rinascita artistica impressionante, lo ritroveremo tra poco qui sotto. ‘najwa’ prende la lezione del davis elettrico e la porta nella modernità con composizioni fluide e aperte e un’atmosfera incredibile, merito anche della produzione (e prestazione al basso) di bill laswell.



harriet tubman, ‘araminta'

ariecco mr. wadada, al fianco degli harriet tubman, trio jazz-rock di new york, fortemente attivo per i diritti degli afroamericani. ‘araminta’ è un disco spettacolare, che unisce la fisicità del power trio alla sperimentazione timbrica di smith fondendo rock, funk, psichedelia e jazz in un tessuto sonoro originale e compatto, assolutamente da ascoltare.



ex eye, 'ex eye’

colin stetson non si sta facendo mancare nulla negli ultimi anni. ora anche lui, come zorn tanti anni fa, decide di sporcarsi davvero le mani nel metallo e lo fa con questo progetto ex eye in cui il suo sassofono si contorce su un fondale black/psych/shoegaze molto ben congegnato e pieno di spunti interessantissimi.



chris bathgate, 'dizzy seas’

a 6 anni di distanza dal precedente, immenso ‘salt year’, riemerge chris bathgate dal profondo dell’america con un altro incredibile quadretto isolazionista ambientato negli spazi più nascosti degli usa. c’è una creatività vibrante che rende ‘dizzy seas’ vivo e commovente, proprio come il suo predecessore. la voce di chris è la guida perfetta, lasciate che vi porti in giro stando comodi sul divano.



flowers must die, ‘kompost'

sorpresa dell’anno, i flowers must die hanno fatto molto parlare di sé con questo bellissimo disco, nato sulla scia del successo dei loro conterranei svedesi goat. psichedelia, kraut, post-qualcosa, folk, tutto viene frullato in un album colorato che riesce ad essere contemporaneamente intelligente e coinvolgente, non è cosa da tutti.



motorpsycho, 'the tower’

salutato (sigh) kenneth kapstad, i motorpsycho presentano al mondo tomas jarmyr, già visto in azione dalle nostre parti con gli zu. ottimo batterista, diamogli tempo di ambientarsi, nel frattempo ‘the tower’, pur con qualche lungaggine di troppo, è un altro centro per i norvegesi. non è al livello del precedente ‘here be monsters’ ma nei momenti migliori (‘ship of fools’, ‘in every dream home’, ‘the cuckoo’) entusiasma e convince.



tinariwen, ‘elwan’

è qualche anno che seguo questo gruppo di tuareg del mali che negli anni si sono costruiti un suono tutto loro, un rock lievemente distorto, cantato in lingua madre e fortemente influenzato dalla poliritmicità africana. ‘elwan’ è il loro settimo disco, il suono della band è compatto e la registrazione ottima, un album da consumare.



metz, ‘strange peace’

i metz sono un trio canadese che fa un gran casino. nel tempo (siamo al terzo disco) si sono sprecati i paragoni coi nirvana, i quali sono indubbiamente una fonte di ispirazione per i metz ma non certo l’unica: il loro suono parte da quegli anni ’90 dei jesus lizard, dei fugazi e anche dei nirvana e lo porta nell’attualità, grazie anche alla registrazione da applausi ad opera di steve albini.


ne è uscita di roba bella quest’anno, non è stato facile sceglierne solo 10. ci sono state un paio di sorprese molto belle, su tutti i ju con il bellissimo ‘summa’, un art-kraut-psych-boh che può essere un ottimo punto di partenza per future evoluzioni. poche settimane fa mi sono trovato ad apprezzare moltissimo il nuovo ‘e’ degli enslaved, a proposito di evoluzioni. è un disco che sa essere intelligente senza essere freddo o intellettualoide, creativo e spiazzante ma coerente. e tanto per restare in ambito di gente che urla, come non citare lo strepitoso esordio dei dead cross, con lombardo a pestare durissimo e patton a sbraitare senza effetti e diavolerie, solo sane corde vocali torturate. il ritorno dei full of hell, ‘trumpeting ecstasy’, conferma tutto ciò che di buono si sapeva del gruppo, tra i migliori nel panorama grindcore/noise di oggi (consigliato anche il nuovo disco coi the body). parlando di ritorni, è finalmente arrivato il nuovo disco dei morbid angel, il primo dal 2003. niente intermezzi strumentali, solo mostruoso death metal come si faceva una volta, ben tornati. e mi è piaciuto pure il nuovo dei foo fighters, tiè.

a dir poco interessanti anche un paio di ristampe; da sentire almeno il bonus disc del remaster di ‘purple rain’: il remaster buttatelo via e tenetevi la vostra vecchia copia ma nel secondo cd c’è una stanza dei tesori fatta di inediti, versioni estese e quant’altro, oltre a un terzo cd con tutte le b-side dei singoli e a un dvd live dell’85. e quando dici live, dici grateful dead. i deadhead di tutto il mondo hanno potuto finalmente gioire della pubblicazione ufficiale del live dell’8 maggio 1977 alla cornell universitiy di ithaca, da molti considerato addirittura il miglior concerto del gruppo. indubbiamente in questi 3 cd è racchiuso un live da pelle d’oca, con tanto di booklet contenente un interessante saggio su quella data.

veniamo, finalmente, alle sòle, alle schifezze, alle delusioni, ai pacchi, natalizi e non.
partiamo con un convintissimo “meh” nei riguardi del nuovo converge, non male ma ben lontano dal livello del suo predecessore ‘all we love we leave behind’. diverso, ok, ma anche meno convinto. ho trovato poco convincente anche 'is this the life we really want’ di roger waters, vuole essere un disco cantautoriale ma mancano le canzoni, troppo focus sul messaggio e poco sulla musica.
generica mediocrità è stata riscontrata nel nuovo steven wilson e in ‘spirit’ dei depeche mode, spompo e senza vita (il disco bello dei depeche mode quest’anno l’han fatto gli ulver). andiamo peggiorando con un disco loffio e poco sensato dei jamiroquai, non che ci credessi particolarmente ma è proprio brutto, tanto quanto ‘emperor of sand’ dei mastodon; un tempo urlavano e scrivevano bella musica, poi hanno iniziato a cantare stonati e a scrivere canzoncine demenziali, andati, peccato.

la palma ‘rifiuto dell’anno’ però va senza dubbio alcuno a ‘the optimist’ degli anathema, pattumiera pura. che manchino le canzoni è quasi il minore dei problemi: la sovrabbondanza di ballate stracciapalle, l’elettronichina dubstep vecchia e trita e fuori contesto, il festival dei cliché nei crescendo “”””post-rock””””, la banalità e pochezza di testi da liceo e, dulcis in fundo, l’insulto finale nel pretestuoso concept sequel di quel disco fenomenale che era ‘a fine day to exit’. il rigurgito patetico di una band che si è giocata le ultime pallottole con ‘weather systems’ e ora si crogliola in un esistenzialismo spiccio da ragazzine. (si è capito che non mi è piaciuto il disco?)


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sabato 4 novembre 2017

ulver, 'the assassination of julius caesar'


sono passati un po’ di mesi dall’ultima uscita in casa ulver, chiedo scusa se arrivo solo ora alla recensione ma ho scelto di aspettare apposta, ho fatto girare il disco da aprile a oggi decine e decine di volte per assimilarlo al meglio e nel frattempo ho visto due volte il relativo tour in cui il gruppo lo ha eseguito per intero.
io penso che nella carriera degli ulver ad oggi ci siano stati 3 dischi fondamentali: ‘bergtatt’, ‘perdition city’ e ‘shadows of the sun’, il primo come apice del periodo black metal, il secondo come perfetta rappresentazione dell’estetica elettronica del periodo di mezzo ed il terzo come opera matura dalla poeticità ipnotica e terrena; oggi possiamo dire che si è aggiunto un quarto momento topico alla discografia, ‘the assassination of julius caesar’.

l’attività live e l’esperimento ‘atgclvlsscap’ hanno evidentemente dato i loro frutti nella fase di composizione, i pezzi sono tutti adatti ad essere riproposti dal vivo con piccole modifiche e gli spettacolari concerti con tanto di laser show l’hanno dimostrato. ‘julius caesar’, musicalmente, è la rielaborazione del synth-pop e new wave nel linguaggio degli ulver; è un ibrido dance-pop in cui garm sfoggia una volta per tutte il suo talento melodico, azzeccando un ritornello dietro l’altro per i 40 minuti di durata del disco. synth in primo piano insieme alla batteria martellante, poche chitarre, usate in maniera immersiva negli strati sonori degli arrangiamenti, percussioni a riempire e questo è quanto. quello che trascina il disco in alto sono proprio le canzoni, la loro capacità di distinguersi perfettamente anche in un disco così coeso e compatto, ognuna con le sue precise sfumature di suono, ognuna con la profonda e commovente voce di garm a narrarci delle sventure dell’umanità.

questo mi sembra un buon momento per introdurre l’altra metà della medaglia: il livello lirico. i testi attraversano la storia dell’umanità, analizzando momenti critici e tirando una linea da una tragedia all’altra, mostrando come gli errori e le crisi siano cicliche attraverso un uso creativo ed intelligente di citazioni. sono testi molto colti e profondi, non particolarmente aperti ad interpretazioni ma sicuramente stimolanti ed acuti. ‘nemoralia’ riesce ad unire l’incendio di roma con la principessa diana in un tripudio di suoni sintetici, ‘rolling stone’ racconta della fondazione di roma e di gesù cristo con cassa in quattro, percussioni ribollenti e ritornello soul, ‘1969’ inscena un peculiare synth-pop psichedelico per citare dai beatles ai rolling stones a charles manson ad anton lavey… e poi walter benjamin, l’angelo di klee, dunkerque, papa wojtyla, rosemary’s baby e l’epico ritornello deliziosamente tamarro dedicato a santa teresa d’avila.
c’è estrema serietà d’intenti ma un’inedita leggerezza nel mezzo a bilanciare, ci sono classe ed eleganza ma anche momenti tamarri e synth acidi a contrastare, tutto è in perfetto equilibrio in un modo assolutamente nuovo nel catalogo dei norvegesi. 
in cabina di produzione troviamo addirittura martin glover, alias youth dei killing joke; il suono generale è pieno e grosso e riesce a rendere vivi i synth che animano le canzoni.

non è un cambiamento radicale ma l’ennesima metamorfosi, il nucleo sonoro del gruppo è evidentissimo e inconfondibile lungo tutte le tracce. non credo proprio che questo momento si ripeterà, gli ulver sono un gruppo troppo integro per tentare la fortuna (o anche solo per ripetersi); inoltre la durata ridotta del disco suggerisce un voler tenere l’esperienza ristretta per garantirne la massima funzionalità (un disco più lungo avrebbe forse annoiato). 

godiamoci quindi questo ennesimo miracolo da parte di un gruppo che non ne vuole sapere di adagiarsi sugli allori, sempre pronto a mettersi in gioco per progredire.

ps: 'sic transit gloria mundi' è un ep uscito a 6 mesi di distanza dal disco; l'ep raccoglie due scarti (è il caso di dirlo) dell'album e una cover piuttosto inutile di 'the power of love' dei frankie goes to hollywood. è una delle poche uscite trascurabili della discografia dei norvegesi, gli scarti sono tali per motivi evidenti (ripetono soluzioni del disco senza però averne la contagiosa melodicità)e la cover scompare se paragonata a quella di 'thieves in the temple' di prince realizzata dal gruppo un po' di anni fa.

lunedì 23 ottobre 2017

today is the day, 22.10.17, freakout club, bologna



una quarantina di persone in un piccolo locale sotto ai binari a bologna una domenica sera. dopo 25 anni di carriera, almeno due dischi che hanno cambiato il corso della musica pesante, un’integrità incrollabile e uno dei suoni più originali degli ultimi vent’anni, questa è l’accoglienza che il pubblico italiano riserva ai today is the day.
sorvoliamo sugli organ che hanno aperto la serata, almeno hanno suonato poco, salgono poi gli americani fashion week, trio evidentemente influenzato dalle idee di steve austin ma con un’aggressività e un entusiasmo tali da coinvolgere i pochi presenti, scendendo anche dal palco per suonare in mezzo alla gente.
bando alle ciance, salgono i tre today is the day per celebrare i 20 anni di ‘temple of the morning star’, opera unica ed irripetibile nel panorama estremo. sette gli estratti dal disco, otto se contiamo la cover di ‘sabbath bloody sabbath’; è l’ultima data del tour e steve austin vuole evidentemente dare tutto. da ‘temple of the morning star’ a ‘hermaphrodite’ è tutta una tirata, una sequela di mazzate, urla terrificanti e oasi melodiche inaspettate (la tripletta ‘pinnacle’-‘root of all evil’-‘hermaphrodite’ è di un’intensità che stende a terra). la nuova band, composta dai giovanissimi douglas andrae alla batteria e trevor thomas al basso e synth, funziona anche meglio di quella precedente e aggredisce il pubblico col classico suono tagliente e sbilenco del gruppo. con l’andare del concerto austin si scioglie e scherza col pubblico, accenna una cover thrash di ‘a passage to bangkok’ dei rush, tronca un’intro acustica per far sfogare il batterista e intanto urla come non si sentiva da un po’, prima di chiudere il concerto (un’ora e un quarto, durata perfetta) con la cover di ‘folsom prison blues’ di johnny cash. in mezzo tre pezzi da ‘in the eyes of god’ e menzione d’onore per l’incredibile ‘the descent’ dal monumentale ‘sadness will prevail’.
di gruppi così ce ne sono pochi: su tutto la musica, creativa, intelligente, profonda e dall’impatto devastante; poi l’attitudine, coerente, dedita alla causa e senza mai prendersi del tutto sul serio.

l’immagine finale è emblematica: steve austin, sudato dal concerto mentre ancora gli altri non sono scesi dal palco, è già in mezzo alla gente ad abbracciare, autografare e fare foto. non è così prevedibile da parte di uno che cinque minuti prima sembrava volesse azzannarti alla giugulare e strapparti la faccia.

setlist:

temple of the morning star
the man who loves to hurt himself
high as the sky
crutch
pinnacle
root of all evil
hermaprhodite
the descent
mother's ruin
in the eyes of god
going to hell
spotting a unicorn
sabbath bloody sabbath
animal mother
folsom prison bluesPlay Vid

martedì 22 agosto 2017

steven wilson, 'to the bone'



abbondano le contraddizioni in ‘to the bone’, quinto album solista di steven wilson, dopo il deludente e forzato ‘hand.cannot.erase.’. saltiamo le presentazioni che tanto non servono più, la prima contraddizione sta già nel titolo, il quale dovrebbe riferirsi ad una ricerca di essenzialità, un andare al nucleo dell’arte di wilson; di questo non c’è invece nessun parallelo nella musica, sovrarrangiata, super-prodotta, dalla scrittura rifinita ed elaborata.
un’altra contraddizione è come wilson stesso ha presentato il disco, parlando di un album pop e pubblicando il singolo di ‘permanating’ come anticipazione. non è un disco pop, lo è in alcuni momenti e non è nulla che non abbiate già sentito in un disco dei blackfield o su ‘stupid dream’. ‘permanating’ è un pezzo pop mediocre che gioca con citazioni palesi e cassa in quattro ma alla fine gira su se stesso e risulta anche fuori luogo nell’economia del disco.

‘to the bone’ quindi. essenzialità. curioso notare allora come su 11 canzoni almeno 4 potessero essere lasciate fuori: una a scelta fra la title-track e ‘nowhere now’ (due rimaneggiamenti del suono di ‘stupid dream’, gradevoli quanto inutili), l’agghiacciante ‘pariah’ (forse il peggior pezzo mai scritto da wilson, di una banalità e prevedibilità sconfortanti), ‘the same asylum as before’ e ‘blank tapes’. ma potrebbero stare in questo elenco anche ‘detonation’, inutile rigurgito prog posticcio e freddo, quanto ‘song of unborn’, pacchiana, pesante e retorica.
cosa si salva dunque in tutto questo? ‘refuge’, che mette in bella mostra l’influenza dei talk talk di ‘the colour of spring’ o ‘spirit of eden’, ‘people who eat darkness’, un bel pezzo scuro e tirato e ’song of i’, fantasiosa nell’arrangiamento e riuscita nell’atmosfera. 
ma anche qui si trova un problema, simile a quello di ‘the raven that refused to sing’: come in quel disco si potevano individuare chiaramente le influenze sparse in giro, si può fare altrettanto qui. a partire dall’autocitazionismo dei primi due pezzi, abbiamo nomiato i talk talk per ‘refuge’, poi c’è la citazione degli abba in ‘permanating’, poi la riuscita ‘song of i’ non tenta nemmeno di camuffare l’influenza del primo peter gabriel solista, l’alone teatrale di kate bush aleggia su vari brani, la malinconia dei primi due dischi dei tears for fears fa capolino dalle strofe più scure… è un po’ un ‘indovina chi’ musicale, anche nei suoi momenti migliori.

è meglio del suo predecessore ma proprio di poco, è un disco che non ha un focus chiaro e alla fine dell'ascolto risulta confuso e senza una direzione precisa. certo, suona in maniera pazzesca, mix e mastering sono di una limpidezza e dinamica impressionanti, su questo non si può discutere, così come sulla padronanza tecnica dei musicisti coinvolti (il suono di batteria di jeremy stacey spazza via ogni memoria di minnemann all’istante). resta l’antica questione relativa a tutta la carriera solista di wilson: chiama dei mostri a suonare e poi si ostina a cantare lui stesso, la cui voce mina pesantemente alcuni brani di ‘to the bone’ (il momento peggiore è il ridicolo falsetto in ‘the same asylum as before’) e risulta monotona e pesante. il fatto che la controparte femminile ninet tayeb abbia lo stesso identico problema timbrico (pesantezza e monotonia) non aiuta affatto le canzoni.

il problema del disco non è che è un disco pop, è che non lo è, ci si butta in qualche momento ma poi resta nella safe zone wilsoniana, non osa, non offre nulla che non abbiate già sentito se conoscete la sua discografia. in più i momenti più pop coincidono con quelli mento riusciti del disco, mostrando come la melodicità dell’inglese abbia oggi dei problemi a evolversi e adattarsi. probabilmente voleva fare un disco ibrido, proprio come il citato 'the colour of spring' o 'melt' di peter gabriel, non si capisce bene se gli sia mancata l'ispirazione o se semplicemente non gli sia riuscito il disco.

non è una stroncatura come per il disco precedente, purtroppo comunque bocciato. alla prossima steven, forse.