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lunedì 16 aprile 2018

prince and the revolution, 'parade'


veniamo quindi all’ultima uscita targata prince and the revolution, la colonna sonora del secondo lungometraggio del folletto di minneapolis, ‘under the cherry moon’.
‘parade’ è l’apice di un percorso iniziato con ‘1999’, è il momento in cui le influenze portate soprattutto da wendy e lisa, jazz e classica su tutte, convergono a creare un ibrido di musica assolutamente moderna che però mantiene solide le sue radici nella tradizione. quale tradizione? dipende, come vedremo. intanto bisogna anche notare il cambio netto di estetica: scompare completamente il viola, così come tutti i colori ad eccezione del bianco e nero. la patina vintage è fortemente voluta da prince e si adatta splendidamente alle canzoni, mentre risulta piuttosto ridicola nel film. già, perché ancora una volta ci troviamo di fronte ad una colonna sonora, e questa volta ancora più che per ‘purple rain’ sarebbe il caso di sorvolare sulla controparte cinematografica. invece no, certe cose vanno dette: ‘under the cherry moon’ è una cagata pazzesca. un film in bianco e nero, girato e ambientato a nizza, dove prince interpreta un artista squattrinato (credibile quanto una moneta da 4,23 euro), seguito dal suo fido compare jerome benton dei the time. si innamora di un’artistocratica, blablablablabla alla fine muore in maniera tragicomica. davvero, lasciamo perdere, pensiamo invece al disco. 
(siccome questo è molto probabilmente il mio disco preferito di prince, ogni tanto potrei perdere un po’ il controllo, a partire dal fatto che farò una cosa che in genere evito accuratamente: il temutissimo e nerdissimo track-by-track.)

‘christopher tracy’s parade’ apre le danze, ed è il caso di dire che lo fa col botto. l’evento più importante da registrare è l’inizio della collaborazione con clare fischer (ed il figlio brent), un artista che herbie hancock ha definito come una grossa influenza sul suo pensiero armonico, non so se rendo l’idea. multistrumentista ed arrangiatore per i hi-lo’s, michael jackson, paula abdul, chaka khan, branford marsalis e molti altri, fischer ha contribuito in maniera massiccia alla riuscita di alcuni dei brani più belli della produzione di prince, con un apice inarrivabile come ‘crystal ball’. in ‘parade’ fischer porta l’aria europea, molto cercata nelle atmosfere e negli arrangiamenti (e anche nel film, ma lasciamo stare); l’orchestra si rivela strumento versatile nelle sue mani, riuscendo, a seconda del brano, ad assecondare o contrastare le idee di prince. in ‘christopher tracy’s parade’ l’impatto non è morbido: la fusione delle due parti genera un muro di suono che non può non riportare la mente al ‘sgt. pepper’, una sbronza di suoni e colori, fiati, archi, cori e quant’altro che lascia storditi. inizia qui anche un'altra collaborazione importante, quella con Eric Leeds, sassofonista che ricoprirà un ruolo fondamentale nel periodo subito successivo a ‘parade’ (dai dischi pubblicati come prince al grandioso esperimento madhouse, passando per le jam post-concerto al trojan horse o allo small club, leeds sarà una forza propulsiva per la musica di prince).
interessante è il processo di registrazione dei primi 4 brani del disco: prince diede ordine di far partire il nastro, si sedette alla batteria e suonò queste 4 canzoni di fila senza mai fermarsi, buona la prima, poi nel giro di qualche ora aggiunse tutti gli altri strumenti e voci.
se questo è l’inizio, il resto come può proseguire? svuotando tutto, asciugando ogni colore e distillandosi in ‘new position’, funk secchissimo (come james brown amava) e storto dall’arrangiamento asciutto ma ricco di cori, molto vicino alle sonorità di ‘kiss’, a parte per un basso irresistibile che guida tutto il brano. nessuna pausa tra i primi due brani e nessuna prima di ‘i wonder u’, vortice sonoro che vede la voce di wendy melvoin protagonista, circondata da effetti sonori, una chitarra aliena e le orchestrazioni di fischer (soprattutto flauti) sparse negli spazi. ancora non ci viene dato il tempo di respirare, dopo solo 1:40 si passa a ‘under the cherry moon’, ballata pianistica in cui c’è molto da notare. sono i dettagli a rendere incredibile ‘parade’ e questo brano lo dimostra: il pianismo jazz è sottinteso all’accompagnamento, la tradizione europea arriva con gli archi che avvolgono le melodie, il vento mediterraneo soffia con dei mandolini nascosti tra gli strumenti; si nota l’eterna alternanza tra il prince sciupafemmine (‘i guess we’ll make love under the cherry moon’) e quello macho egocentrico (‘maybe i’ll die young like heroes die’, come poi fa succedere nel film. ma lasciamo perdere.), c’è il contrasto tra l’artista rinchiuso in studio in solitudine (suona tutti gli strumenti non orchestrali) e quello aperto alle collaborazioni ed influenze (difficilmente sarebbe arrivato a scrivere un pezzo così senza wendy, lisa e fink). una canzone importante, oltre che bellissima, posta in chiusura di un medley iniziale che non ha mezze misure e lascia senza respiro.
ci si sente un po’ più a casa con ‘girls and boys’, uno dei brani più longevi nelle scalette dei concerti, un funk venato di paranoia che gioca con gli incastri degli strumenti un po’ come faceva ‘when doves cry’. è anche il primo brano in scaletta a vedere la partecipazione di tutti i membri dei revolution e suona infatti molto organico e compatto (wendy melvoin racconta che al tempo, durante le prove, erano soliti improvvisare anche per 4 o 5 ore di fila, senza pause, prendendo un groove e usandolo come un mantra. sono evidentemente le situazioni da cui nascono brani come questo, ‘mountains’, ‘america’ o ‘billy’). nonostante si torni su sentieri più familiari, resta un senso di cambiamento forte: anche solo il sax di leeds è qualcosa di nuovo per uno che faceva bandiera del suo sostituire i fiati con i synth, inoltre le melodie del brano sono tutte sbilenche, con momenti di dissonanze inaspettate. il discorso è lo stesso ma il suono ancora più straniante in ‘life can be so nice’, un pezzo che stordisce con armonie forzate e di grande impatto, oltre a un treno ritmico inarrestabile che ha apice in un break guidato dalla doppia cassa (tutto suonato in solitaria da prince, of course. c’è sheila e ma suona solo il cowbell) su cui wendy e lisa incrociano le voci con quella di prince in cori sincopati in rapida sequenza. non proprio roba di tutti i giorni, ecco. il primo lato del disco si chiude con ‘venus de milo’, un delicato strumentale che continua il discorso di ‘under the cherry moon’ in punta di piedi, un’oasi estremamente piacevole in mezzo al marasma sonico dell’album.
dopo neanche due minuti ‘mountains’ deflagra dalle casse e ci si trova davanti uno dei momenti più alti del disco e, conseguentemente, della carriera di prince. il tiro è quello classico del suono di minneapolis, l’arrangiamento è ricco e lussurioso (matthew 'atlanta bliss' blistan si aggiunge con la sua tromba al sax di leeds), l’orchestra sottolinea ed enfatizza l’epicità della canzone, soprattutto nello special strumentale fatto di obbligati e sincopi. le melodie portanti sono semplicemente bellissime ed il tutto si somma in una canzone intensissima. momento di relax con ‘do u lie’, divertissement jazzato d’epoca, leggero e riuscito, ottimo per introdurre un’ultima parte di disco che non fa prigionieri.
su ‘kiss’ o si scrive un libro intero o si cerca di stare in un paio di righe. proverò la seconda opzione, fallendo. cazzate a parte, cosa volete che vi dica che non sappiate già? magari non sapete che era stata scritta (6 giorni dopo l’uscita di ‘around the world in a day’) per i mazarati, gruppo di brown mark, come pezzo blues; i mazarati l’hanno virata funk, prince l’ha sentita, se l’è ripresa, ha tenuto batteria e cori del gruppo ed ha aggiunto tutto il resto, lasciando intenzionalmente fuori il basso. mitologia a parte, sintetizza alla perfezione la parte funk di ‘parade’: suono secchissimo, arrangiamenti asciutti e percussivi, cori profondi che punteggiano la voce principale, un sunto dell’anima più zozza del disco.
‘anotherloverholenyohead’ chiude invece il discorso di ‘life can be so nice’ e ‘mountains’: anima rock, tiro funky e una profondità di suono che contrasta con la frontalità del pezzo precedente. ha un ritornello da stadio che l’ha riportata dal vivo molto spesso, con grande felicità dei fan. in mezzo al pezzo ricompare l’orchestra, portando la consueta punta di psichedelia con giochi melodico-armonici che spostano il brano verso il finale, dove c’è un continuo aprirsi in momenti quasi astratti e riprendere il tiro solido del brano.
forse avrete intuito che a me prince piace e mi piace parlare della sua musica. molto. vi dico la verità, di fronte a ‘sometimes it snows in april’ mi trovo regolarmente senza parole. non le trovo, non credo che esistano, almeno non quelle che vorrei. è una ballata acustica, wendy alla chitarra e cori, lisa al piano e cori e prince alla voce, registrata il 21 aprile del 1985 ai sunset studios di hollywood; esiste un arrangiamento orchestrale di fischer ma prince ha preferito escluderlo da questa versione. è comparsa più o meno regolarmente in quasi tutti i tour seguenti e ne esistono due versioni live ufficiali del 2002. vi ho appena detto aria fritta. perché? perché il momento in cui la voce di prince sussurra “maybe one day i’ll see my tracy again” e tutti gli strumenti restano sospesi in un vuoto che è la risposta a quella speranza… boh, non lo so come spiegarvelo. ditemelo voi perché io non lo so.

e così ho finito

di parlarvi dei pezzi del disco, poi c’è tutto il resto: b-side, pezzi scartati e tour (risata diabolica).
partiamo dalle b-side, che quantomeno sono state pubblicate ufficialmente.
‘love or $’, b-side di ‘kiss', è il primo pezzo pubblicato da prince in cui c’è la partecipazione di eric leeds. è un funk asciutto e secco, perfettamente in linea col suono di ‘parade’, ma presenta anche una pienezza timbrica che guarda già a ‘sign o the times’; non si sa molto di certo su chi suoni nella canzone, di sicuro wendy, lisa e leeds.
‘alexa de paris’ invece è stata pubblicata come b-side di ‘mountains’ (e si sente nel film. ma lasciamo perdere.) ed è un pezzo strumentale curioso, a partire dalla lineup: prince suona tutto tranne la batteria che viene suonata da sheila e invece che dal fido bobby z; oltre ai due c’è “solo” l’orchestra arrangiata da clare fischer. è una canzone che mantiene tutto il profilo melodico di parade ma per struttura e pomposità se ne allontana decisamente, ricordando più cose future come ‘3 chains o’ gold’ nella sua magniloquenza quasi progressive. di certo è un piacere sentire quella chitarra svolazzare libera per gli ampi spazi di un brano tutt’altro che inferiore, solo piuttosto diverso.
curiosamente questi due brani sono gli unici b-side del periodo 82-86 a non essere stati inclusi nel terzo cd di ‘the hits/the b-sides’, non ci è dato sapere il perché.
venendo poi ai pezzi scartati, c’è da restare a bocca aperta davanti a ‘all my dreams’: un tripudio di arrangiamenti bizzarri, cori, tasiere, voci filtrate, un break jazzato in mezzo al brano e un finale epico con tanto di coro in stile gospel (non sono pervenuti commenti di prince riguardo alla canzone ma se avesse osato ancora una volta dire che non ci sono i beatles di mezzo ci sarebbe da ridere sul serio).
‘old friends 4 sale’ è una ballad blueseggiante sleazy e torbida, un po’ come sarà ‘slow love’ su ‘sign o the times’, puro feeling (e la mancata occasione di un assolo di chitarra strappamutande, sigh). ‘others here with us’ invece è uno dei pezzi più strani mai registrati da prince, con un testo che parla di suicidi, bambini morti e fantasmi e un campionario di suoni raccapriccianti presi direttamente dal nuovo synth fairlight con cui stava giocando in quel periodo, una forma di impressionismo sonoro che a tratti sa più di esperimento che altro.

il tour di ‘parade’ avrebbe dovuto compensare anche al mancato tour di ‘around the world in a day’ (mai programmato, mai nemmeno ipotizzato, prince si è gettato direttamente nel progetto ‘parade’/‘under the cherry moon’). nelle scalette in realtà, a parte la posizione d’onore di apertura per la title-track, comparivano solo i due singoli ‘raspberry beret’ e ‘pop life’, la prima con un’introduzione di obbligati infernali per tutta la band, suonata poi molto simile alla versione originale; la seconda invece, dopo un’introduzione di synth ambientali, veniva suonata decisamente più veloce della versione pubblicata, arricchita da fraseggi di flauto ma non al livello dell’originale.
il resto della scaletta escludeva tutto ‘purple rain’ ad eccezione della title-track in chiusura di concerto e di ‘when doves cry’ (resa incredibilmente con l’ingresso dell’intera band a metà pezzo) e presentava quasi tutto ‘parade’, in genere restavano fuori solo ‘do u lie’ e ‘sometimes it snows in april’. questa scelta era dettata dal fatto che gli show erano di un’energia incontenibile, non c’era un momento di pausa e la band era compattissima nel seguire il direttore. non potendo contare sulle orchestrazioni del disco, gli arrangiamenti dei pezzi si basano molto di più sull’interazione tra gli strumenti e sulle combinazioni tra essi, con la sezione ritmica a fungere da collante. ’new position’ si arricchisce dei fiati che le donano una profondità maggiore, ‘i wonder u’ trova una nuova veste con linee di fiati inedite ed un tiro più dance; ‘anotherloverholenyohead’ esagera ed accresce il livello di energia dell’originale, grazie anche ai continui “call out” di prince; ‘girl and boys’ fa il suo ingresso trionfale nelle scalette in versione simile a quella pubblicata ma graziata dall’incredibile stato della band che la rende vibrante, esattamente come ‘life can be so nice’, che verrà però ripescata molto meno spesso in futuro.
si trova qualche bootleg in qualità abbastanza buona che documenta alcune delle date del tour, il quale curiosamente non ha neanche sfiorato le americhe, venendo unicamente in europa con un’appendice giapponese di 4 date. più difficile trovare video in buona qualità ma qualcosa c’è, frugate negli orrendi meandri dell’internet.

ho quasi finito davvero. poche righe per sottolineare come il periodo di ‘parade’ abbia rappresentato un vertice nella produzione di prince, se non altro per un disco che fotografa il momento di massima intesa e cooperazione con i revolution, sciolti poco dopo la fine del tour mentre lavoravano a nuovi progetti rimasti inediti come ‘roadhouse garden’ o ‘dream factory’.

i brani del disco sono la fusione perfetta delle varie anime di prince, quella funk lercia, quella romantica, quella macho e quella artistica/geniale. è soprattutto una prova di composizione altissima, in quanto riesce a costruire un telaio solido su cui utilizzare una quantità di materiali diversi che spiazza, sorprende e lascia appagati. è il punto preciso di equilibrio di un suono ibrido e instabile che per 40 minuti non si dà pace, un miracolo di arrangiamento creativo e lo sfavillante inizio della collaborazione con clare fischer. un’opera d'arte per cui bisogna sentitamente ringraziare il suo creatore, per quanto piccolo e testardo fosse. 



(non ci si deve sentire invece in obbligo di ringraziarlo per il film. forse è meglio lasciar perdere.)

mercoledì 11 aprile 2018

prince and the revolution, 'purple rain'


ed eccoci qui, il momento in cui prince diventa ufficialmente un fenomeno mondiale, l’esplosione su grande scala. il successo di ‘purple rain’ è tale che la maggiorparte delle persone conoscono solo questo disco di prince o addirittura solo la title-track. com’è stato possibile questo successo? i fattori in gioco sono tanti, sedetevi comodi e parliamone.

‘1999’ aveva avuto un successo enorme e aveva presentato il personaggio che prince avrebbe interpretato per il resto degli anni ’80, un’estetica fatta di glitter, pose provocatorie, un’oscillazione costante tra sciupafemmine efebico e chitarrista rock macho, il tutto immerso in un viola profondo, a metà tra il vellutato ed il minaccioso. 
musicalmente poi aveva creato un mondo, solidificando il suono di minneapolis ed introducendo già una parte rock bianca che ora prenderà il sopravvento.
la musica pubblicata su ‘purple rain’ è stata tutta scritta tra l'83 e l’84, a parte ‘baby i’m a star’, una cui versione demo viene fatta risalire a fine ’81. questo dimostra, ancora una volta, una chiarezza di intenti invidiabile da parte di prince: il cambio di suono rispetto a ‘1999’ non è indifferente, ci si aspetterebbe un disco di transizione per arrivare ad una forma compiuta mentre prince, grazie alla qualità assoluta delle composizioni, riesce a centrare l’obiettivo al primo colpo.
come vedremo più avanti, la quantità di materiale composto in questo periodo è enorme (duane tudahl ci ha scritto un intero libro, “prince and the purple rain era studio sessions: 1983 and 1984”), tanto che molte di queste canzoni finiranno in dischi successivi (‘raspberry beret’ e ‘pop life’ su ‘around the world in a day’ ad esempio) o come b-side di singoli (’17 days’, ‘erotic city’, ‘god’, ‘another lonely christmas’ prima, poi la stupenda ‘she’s always in my hair’ e ‘girl’) oppure dimenticate nei meandri della sconfinata vault di paisley park. 

ma veniamo al disco in sé finalmente. no, non è vero, manca ancora un po’. questo perché  ricordiamoci che il disco non è altro che la colonna sonora del film, almeno nella testa di prince; poi che il film sia un’opera assolutamente trascurabile e il disco un capolavoro è un altro discorso, il nano comunque ha investito una quantità importante di tempo e soldi nel progetto cinematografico ed ha anche avuto un buon successo nelle sale. è il film migliore di sempre? beh sì, certo, è un film con prince, ma a parte questo particolare, no, non lo è neanche alla lontana. è un film che parla di conflitti su vari livelli senza approfondirne veramente nessuno, resta un po’ per aria e funziona grazie all’immagine di prince e dei revolution, altrimenti nessuno se lo sarebbe mai filato.
ecco, i revolution. finalmente hanno modo di farsi sentire in buona parte dei nuovi pezzi e questa volta non solo come coristi. i tre pezzi finali dell’album, ‘i would die 4 u’, ‘baby i’m a star’ e ‘purple rain’, giungono direttamente da un live del 3 agosto 1983 al first avenue di minneapolis e includono quindi la lineup completa: bobby z alla batteria, brown mark al basso, wendy melvoin alla chitarra ritmica, lisa coleman e matt fink alle tastiere. questa è la band che accompagnerà prince per altri due dischi (editi) dopo ‘purple rain’ e per i relativi tour, prima che venga sciolta dallo stesso prince prima della pubblicazione di ‘sign o the times’.

l’organo che apre ‘let’s go crazy’ ha un valore religioso per un fan di prince, è il segnale dell’inizio di una festa che non finisce mai, è la campanella di fine lezioni, è il suono del treno della metro quando rientri il venerdì sera. il tono ieratico con cui poi veniamo invitati a perdere ogni controllo non fa che accentuare questo aspetto religioso, discendente in qualche modo di quelle note iniziali di ‘a love supreme’ di coltrane. nello svolgersi del pezzo si viene investiti da un’onda di suono a cui è impossibile resistere, fino a quel momento in cui il fiato si ferma e si rimane sospesi con un feedback di chitarra lancinante, prima del pirotecnico finale. c’è ancora quel tono da rituale post-apocalittico di ‘1999’ ma questa volta dopo la linn drum non entra un esercito di synth, bensì una sezione ritmica rock che sposta completamente il baricentro del suono. il funk è ancora presente ma ‘purple rain’ è uno dei dischi più bianchi di prince e sicuramente il suo disco più rock degli anni ’80: le schitarrate e doppia cassa in ‘darling nikki’ sono difficili da ricondurre alla tradizione afroamericana, così come le trame pop di ’take me with u’ o lo svolgersi di ‘computer blue’ (soprattutto nella sua versione integrale, ci arriviamo poi) (ve l’avevo detto di mettervi comodi, ne ho ancora per un bel po'). 
questo è poi un disco che crea un precedente importantissimo: uno dei suoi singoli di maggior successo è ‘when doves cry’, ovvero il primo pezzo funk senza basso di prince, due anni prima di ‘kiss’. la canzone non solo sta in piedi comunque ma si eleva fino ad essere uno dei brani migliori mai scritti dal nano grazie ad un riff di tastiera memorabile e ad un’interpretazione drammatica e profonda della voce.
come dicevo prima, le basi per il trittico finale sono state registrate dal vivo al first avenue di minneapolis; su queste poi sono state operate sovraincisioni varie per arrivare al risultato finale ma la carica dell’esecuzione live si fa sentire sia in ‘i would die 4 u’, gioiello melodico ammantato di una vaga psichedelia che tornerà nel disco successivo, che in ‘baby i’m a star’, pezzo tirato e festaiolo che fa da perfetto perambolo al finale dell’album. e che vi devo dire del finale dell’album? è il pezzo più famoso di prince, è diventato il suo simbolo, è la canzone che tutti volevano sentire ai suoi concerti. è una ballata lenta e molto aperta, con ampi spazi lasciati alle code dei suoi, ai riverberi, allo spazio tra le note; conta su una delle migliori performance vocali che prince abbia mai registrato, nonché su un assolo di chitarra che mostra tutto il suo feeling sullo strumento. è graziata da un trio d’archi arrangiato da david coleman, fratello di lisa che si occupa di tutti gli archi nel disco (un fatto non da poco visto che di lì a breve da ‘parade’ inizierà la collaborazione con il maestro clare fischer). una canzone perfetta, inattaccabile da ogni punto di vista, che rappresenta il culmine emotivo di un album (e film) pseudo-biografico in cui particolari reali della vita di prince si intersecano a storie e leggende che lo accompagneranno per tutta la carriera (il rapporto con suo padre era buono, tanto che a volte gli regalava crediti per le canzoni).

se il materiale pubblicato sul disco è praticamente perfetto, quello rimasto fuori non è tanto da meno, anzi. partiamo da ‘computer blue’, 3:59 sul disco, 12:19 nella sua versione integrale, la cosiddetta ‘hallway speech version’, recentemente pubblicata sulla ristampa di ‘purple rain’ (osceno e criminale il remaster ma il materiale bonus è assolutamente da avere, incluso il dvd con l’intero concerto al carrier dome di syracuse dell’85). in quasi un quarto d’ora di musica, prince riesce a cambiare continuamente feeling, passando dalla parte cantata a una lunghissima sequenza strumentale in cui, su un beat costante, vengono continuamente introdotti temi e suoni nuovi, prima di deragliare in una coda rumoristica. la sintesi dell’album è comunque un’opera incredibile ma questa versione mostra ancora una volta la capacità di prince di operare su lunghi brani.
ci sono poi le b-sides: ’17 days’, ‘erotic city’, ‘god’ e ‘another lonely christmas’. se ‘christmas’ può essere trascurata (un pezzo rock da stadio non brutto ma neanche eccelso), le altre tre canzoni sono invece assolutamente a livello dei brani dell’album. ‘god’ esiste in due versioni, una è una ballata di 4 minuti per piano, voce e synth, molto sentita e dagli acuti impressionanti, l’altra è uno strumentale di otto minuti che si inerpica addirittura per territori progressive, trainato dalla chitarra selvaggia e avvolto in pad sintetici. dal vivo poi era un’altra cosa ancora, un dialogo parodistico tra prince e la voce di dio che era più scena che musica.
in ’17 days’ si sente pesantemente la mano dei revolution, soprattutto di wendy e lisa: il riff portante di tastiera è loro e arriva da una jam in studio. il pezzo ha una melodicità tutta sua, con ancora una volta quel tocco psichedelico e sixties che si sposa alla perfezione con il lato più naive di prince. ‘erotic city’ invece sembra provenire già da ‘lovesexy’ (non a caso aprirà i concerti di quel tour nell’88/89), un pezzo dance scarnificato che inizia ad esplorare il mondo dell’effettistica vocale accelerando il nastro della voce principale, un espediente che in futuro prince utilizzerà pesantemente. 
nel frattempo vengono composti brani anche per i ‘protetti’, ad esempio i the time e sheila e, futura batterista/percussionista/corista della band di prince che in questo periodo esordisce sul mercato con ‘the glamorous life’, disco trainato dall’omonimo singolo di grande successo… scritto da prince. ci sono poi le vanity 6, per le quali in questo periodo viene scritta ‘g-spot’, divertente pezzo danzereccio di gran lunga più interessante nella versione cantata da prince. viene anche scritta ‘manic monday’, regalata poi alle bangles e pubblicata nell’86 su ‘different light’.
diverso il destino invece di ‘a place in heaven’, delicata ballata in falsetto reperibile in due versioni, una cantata da prince e registrata in questo periodo, l’altra con lisa alla voce principale, ipotizzata nella scaletta di ‘dream factory’, album poi abortito di cui varie canzoni finiranno in ‘sign o the times’.

chiudiamo questa rassegna degli inediti con due dei brani più sperimentali mai registrati da prince, ovvero ‘cloreen bacon skin’ e ‘billy’ (o ‘billy’s sunglasses’, dagli occhiali che porta il personaggio di billy sparks nel film ‘purple rain’). la prima verrà pubblicata solo nel ’98 su ‘crystal ball’, è un duetto con prince al basso e voce e morris day alla batteria, un quarto d’ora di improvvisazione con la voce filtrata di prince che racconta di una sua fantomatica prima moglie molto grassa chiamata, appunto, cloreen. l’esperimento non è un caso isolato, troviamo un suono molto simile in bob george sul ‘black album’, ad esempio, altro delirio su base basso/batteria funk e zozza. ‘billy’ invece è un’esperienza. è un’improvvisazione di gruppo durante una prova nell’83 in cui prince suona la chitarra in un modo estremamente rock, come gli si sentirà fare in abbondanza più avanti nella carriera. il beat incessante e le tastiere di fink sono una cornice perfetta per questo sproloquio vocal/hendrixiano che dura ben 51 minuti, un viaggio non per tutti ma sicuramente consigliato a chi vuole farsi un’idea della versatilità di prince.


bene, è stata lunga ma siamo giunti alla conclusione. come avrete capito, l’album ‘purple rain’ è solo la punta di un iceberg chiamato prince. è la summa della produzione di quel periodo e ne è sicuramente una rappresentazione fedele, per quanto sintetica. è la fotografia di un momento in cui la creatività di prince cresceva di pari passo con le sue capacità e conoscenze, aiutato anche dalla musica che wendy e lisa gli facevano ascoltare (sorpattutto jazz e classica, influenze che esploderanno su ‘parade’). è uno dei momenti di sinergia migliore insieme a una band che, per quanto fondamentale nell’evoluzione dell’artista americano, durerà un attimo e scomparirà nel 1986, solo due anni dopo la pubblicazione di ‘purple rain’. è la dimostrazione che anche negli anni ’80, con i suoni degli anni ’80, si poteva fare grande musica da tramandare alle generazioni future e da conservare nella memoria collettiva.

ps: alcuni dei brani che ho citato nella seconda parte dell'articolo sono molto difficili da reperire. il mio consiglio è di cercare in giro per internet quello scrigno meraviglioso chiamato 'work it 2.0', una raccolta di 34 (sì, 34) cd di materiale inedito che è trapelato negli anni dalla vault, brani inediti, demo, versioni alternative, etc., tutto diviso cronologicamente. se foste interessati contattatemi in privato.