domenica 29 giugno 2025

queensryche, 'operation: mindcrime'

 


ci sono dischi nella storia del metal che sono capaci di mettere d’accordo più o meno tutti, ‘master of puppets’, ‘reign in blood’, ‘nightfall in middle earth’, ‘human’ e qualche altro; e ‘operation: mindcrime’.


il 3 maggio del 1988 i queensryche pubblicano quello che è non solo il loro capolavoro ma anche uno dei grandi apici del metal tutto. lo fanno nella forma più prog possibile, il concept album, quindi sarebbe lecito aspettarsi che la sperimentazione e i sintetizzatori di ‘rage for order’ abbiano qui ancora più rilievo… e invece no. le tastiere vanno in secondo piano, il comando strumentale torna saldamente in mano alle chitarre, la sezione ritmica prende sempre più importanza e l’intreccio tra rockenfield e jackson diventa quasi sempre parte fondamentale delle composizioni con finezze da rush in salsa metal. le strutture non subiscono grandi mutazioni (a parte ovviamente il caso della suite, a cui arriveremo) e le canzoni si sviluppano quasi sempre allo stesso modo, prendendo a tratti molto da certo aor di stampo journey, un’ispirazione che un paio di anni più tardi diventerà prevalente in ‘empire’. si parla sempre di metal ma se pensate alla furia del thrash o alle cavalcate dei judas priest siete fuori strada, è un metal decisamente più laccato ma lontano dalla gommosità del glam tanto quanto dal suono trucido del thrash. non a caso alla produzione troviamo peter collins, già collaboratore di lunga data dei rush; nonostante questo, l'abusata definizione di "progressive metal" qui è quantomai fuorviante: 'mindcrime' è fondamentalmente un disco metal/aor.

quello che lascia davvero esterrefatti è la costante qualità stellare di queste canzoni: in un’ora netta di musica non c’è un secondo di calo, non c’è un momento che non sia stato curato e studiato, quasi tutti i riff di chitarra sono da includere negli annali del metal e le melodie sono miracolose.


il concept presenta dei punti molto interessanti, specialmente se contestualizzato nel suo momento di uscita. per prima cosa i ryche evitano la via facile facile che spesso hanno i concept metal, infilarsi nel fantasy tolkeniano e/o nella suggestione di lovecraft; visti i temi del disco precedente sarebbe stato lecito aspettarsi un racconto fantascientifico o quantomeno futuristico, invece tate (la storia è sua) decide di ambientare la sua opera per le strade di quella che potrebbe essere new york (di fatto l’unico posto reale citato in tutto l’album è times square) in una grigia e cruda contemporaneità, tra attentati terroristici ed eroinomani ai confini della società. nikki, per la precisione, è il nome del protagonista che da una stanza di ospedale ricorda la sua drammatica vicenda con il perfido dr.x e l’amata sister mary, ex-prostituta convertita a suora/schiava da un prete pervertito al servzio dell’operazione di x, chiamata appunto mindcrime.

tre anni dopo i savatage pubblicheranno ‘streets’, metal-opera in cui una rockstar finisce nel tunnel dell’eroina per le strade di new york. altre atmosfere e intenzioni ma sempre di metal americano parliamo e il parallelo è inevitabile (volendo approfondire potremmo anche dire che 'streets' è molto più progressive di 'mindcrime' per vari aspetti, come l'uso di tempi dispari e di strutture inusuali che qui compaiono quasi esclusivamente in 'suite sister mary'.


‘i remember now’ introduce la trama con dialoghi e ricordi di nikki dalla stanza d’ospedale, poi esplode ‘anarchy x’ e iniziano i fuochi d’artificio. l’ouverture è ovviamente epica, una marcia metal strumentale con le chitarre ad armonizzarsi e la sezione ritmica a prendere subito il suo spazio, prima di un finale turbinoso che conduce direttamente all’intro di ‘revolution calling’. non ci sono molti album che possono vantare una canzone del genere in apertura; l’introduzione è rush nel midollo, il tema di chitarre si imprime a fuoco nella mente e quando geoff entra con la voce si ha l’impressione di trovarsi di fronte una canzone perfetta. ai primi ascolti è l’interpretazione di tate a prendersi tutta l’attenzione, con la sua estensione sconfinata e una potenza che spazza via tutti i concorrenti; sotto di lui però le chitarre macinano riff incredibili in continuazione, per arrivare poi a un assolo che combina il gusto melodico impeccabile di degarmo con un intreccio ritmico da capogiro. sembra una canzone perfetta per un motivo preciso: lo è, esattamente come quasi tutte le altre del disco.

il riff della title-track è già memorabile di suo, eppure non sarebbe la stessa cosa senza quel basso pulsante che lo tiene in avanti e che nella strofa si prende anche degli attimi di protagonismo mentre tate è irraggiungibile, da qualunque punto di vista, così come nella seguente ‘speak’, lanciata a gran velocità verso il cupissimo ritornello.

‘spreading the disease’ introduce sister mary, raccontando del suo passato e di come il prete l’abbia portata nell’organizzazione con un altro pezzo veloce ma melodico, marcato da una decisa vena di critica sociale che rivela una possibile interpretazione del concept più profonda della semplice storia da broadway. ‘the mission’ è uno dei picchi emozionali del disco, una power ballad in cui tornano le tastiere ma in veste molto più cinematografica rispetto a quelle acide e futuristiche di ‘rage for order’. chi fa il buono e cattivo tempo è ovviamente tate con una delle sue prove più incredibili di sempre ma anche in una ballata le chitarre non mancano di accompagnare con riff grandiosi e l’assolo di degarmo è un’altra perla.


piuttosto ovvio da dire ma servirebbe un intero articolo solo per ‘suite sister mary’. nei suoi quasi 11 minuti si possono ascoltare tutti i punti di forza dei queensryche all’ennesima potenza: l’alternanza tra chitarre pulite e distorte produce arpeggi spettrali indimenticabili e forse il più grande riff mai scritto dal signor degarmo, che quindi è anche uno dei più grandi riff di sempre. la sezione ritmica non è importante, è fondamentale, sia quando gli spazi si allargano nelle strofe con piccole finezze che nel vortice di chitarre elettriche, evidenziando accenti inusuali e mantenendo il beat spedito e cazzuto. sì lo so, non mi vengono parole migliori.

la storia è a un punto cruciale, nikki è di fronte a mary con l’ordine di ucciderla, dopo aver già ucciso il pretaccio. tutta la vena teatrale del gruppo è al suo picco, con tanto di citazioni dal ‘dies irae’, e spinge tate alla prova definitiva, giocando con toni da baritono nelle strofe per poi esplodere in tutta la sua potenza e duettare con pamela moore, che interpreta mary. è il capolavoro nel capolavoro, l’esplosione totale della creatività di un gruppo all’apice della sua forma.


la seconda parte del disco parte a mille con la cavalcata di ‘the needle lies’, una collezione di riff uno più bello dell’altro con un ritornello che verrà urlato dalle folle ai concerti. ‘electric requiem’, a firma rockenfield, è un intermezzo straniante in cui nikki trova in corpo senza vita di mary, da qui inizia la spirale che porta nikki alla follia e infine all’arresto. ‘breaking the silence’ e ‘i don’t believe in love’ sono due inni, canzoni baciate dalla penna infallibile di chris degarmo e marchiate da ritornelli perfetti durante le quali ci si immagina nikki disperato per le strade a inveire contro i cieli. specialmente ‘i don’t believe in love’, nominata ai grammy del ’90, diventa uno dei grandi classici del gruppo, immancabile nelle scalette dei concerti. 

un breve strumentale acustico e un desolante intermezzo ci conducono al gran finale, ‘eyes of a stranger’. singolo di enorme successo e altra pietra portante dei concerti futuri, è un pezzo straziante in cui la voce di tate si fa carico di tutto il dolore della storia; le chitarre evitano ritmiche serrate e si sviluppano più su arpeggi, sia distorti che puliti, mentre la ritmica è sempre in primo piano con pulsazioni non sempre lineari e finezze nell’arrangiamento, il ritornello poi è pura magia, così come l’indimenticabile assolo incrociato.


oltre al successo di critica, il disco porta al gruppo anche il riscontro positivo di un pubblico sempre più vasto, regalando a tate e soci il loro primo disco di platino e facendoli andare in tour per due anni, tra date da headliner e aperture per metallica, guns n’ roses e def leppard. quando poi ‘empire’ li porterà veramente in alto nelle classifiche, il gruppo non perderà occasione di portare dal vivo l’intero ‘operation: mindcrime’ in una serie di concerti leggendari, testimoniati sull’imperdibile ‘operation: livecrime’.

con ‘mindcrime’ i queensryche hanno realizzato un album perfetto che prende le varie facce del gruppo e le spinge all’estremo in un contesto teatrale come non mai, un capitolo irrinunciabile per l’heavy metal e, mi si conceda, per il rock tutto. un capolavoro, tanto quanto quelli citati all’inizio.

domenica 22 giugno 2025

queensryche, 'rage for order'

 


tutto ciò che era già incredibile in ‘the warning’ viene portato a un livello ancora superiore nel suo successore, ‘rage for order’ del 1986, per alcuni fan il non plus ultra dei cinque di seattle. 

per alcuni aspetti ha perfettamente senso che esca nello stesso anno di ‘master of puppets’: entrambi i dischi rappresentano una maturazione netta dell’heavy metal americano, uno sul versante thrash, l’altro su quello classico, in entrambi i testi delle canzoni sono molto più focalizzati su un dolore più psicologico che fisico ed entrambi portano un certo discorso musicale ai suoi massimi livelli, tanto che sia i metallica che i queensryche dovranno spingere il proprio suono all’estremo per proseguire, con risultati buoni a metà per i primi (‘…and justice for all’) ma clamorosi per i secondi (‘operation: mindcrime’).


‘walk in the shadows’ apre le danze e da sola vale il biglietto di ingresso. la ritmica non concede tregua ma è il linguaggio delle chitarre a lasciare a bocca aperta: magistralmente scritte da degarmo e armonizzate da wilton, sfoggiano riff maestosi quanto taglienti e distanti prima di un solo che è perfezione pura, lontano anni luce dallo shredding tamarro del periodo. è d nuovo il signor tate a portare tutto questo ancora più in alto: la sua tecnica vocale è migliorata e l’espressività è più accentuata, dinamica, coinvolgente, fermo restando potenza ed estensione sovrumane.

‘i dream in infrared’ introduce pienamente la vena tecno-digitale nei testi, è una ballata ma non è una ballata, è scurissima e paranoica e lavora sulle emozioni in musica in un modo che troverà compimento in ‘promised land’ 7 anni più tardi. ‘the whisper’ torna alla potenza del primo album ma con una netta maturazione tecnica e compositiva mentre ‘gonna get close to you’, cover di lisa dalbello, è un raggelante racconto di uno stalker, in tinte cyber portate dal pesante uso di synth, un brano che fece storcere il naso a molti all’epoca ma che risulta perfettamente inserito nel contesto dell’album.

synth che introducono anche ‘the killing words’, straziante ballad lontana e algida nell’arrangiamento (con ancora un lavoro maiuscolo di chitarre) ma drammatica nella prova di tate. ‘surgical strike’ e ‘chemical youth’ sono parenti di ‘the whisper’, ottimi heavy che mantengono il livello ma poco aggiungono, al contrario del brano posto in mezzo a loro e chiamato ‘neue regel’. l’incubo tecnologico raggiunge il primo picco in un brano in cui campionamenti e sintetizzatori sono parte integrante della composizione quanto gli strumenti canonici, la struttura viene deformata e l’orrore prende forma nell’angosciata prestazione di geoff, attore in una trama oscura e drammatica… più o meno come succederà due anni dopo.


se molti album tendono a perdere colpi sul finale, ‘rage for order’ non è tra questi. ‘london’, come ‘walk in the shadows’, è pura perfezione, uno dei pezzi più queensryche che i queensryche abbiano mai scritto, con la classica alternanza di chitarre pulite e riff intrecciati a due parti, un bridge magistrale che fa crescere la tensione prima del terrificante ritornello e di un grandioso solo a due chitarre. viene da chiedersi come sia possibile ma ‘screaming in digital’ è ancora di più. probabilmente la sintesi migliore dell’intero disco, un pezzo dalla ritmica robotica martellante, tastiere aliene e riff di chitarra irripetibili. e poi, ancora una volta, lui, geoff tate, a portarsi via tutto e tutti con un’intensità che ha fatto scuola, speculando sui sentimenti delle macchine esattamente come i compaesani nevermore avrebbero fatto un decennio più tardi.

‘i will remember’ parla di venti gelidi, satelliti e pianeti lontani, chiude il disco in una nube di ansia desolante , un vuoto gelido che mette i brividi.


‘rage for order’ è un disco fondamentale nella storia dell’heavy americano, ha mostrato una via raffinata e intelligente, lontana anni luce dalle tamarrate da macho e dallo splatter ma illuminante per tutto un nuovo filone prog-metal che proprio da qui e dai fates warning muoverà i primi passi.

evoluzione, classe e canzoni indimenticabili, i queensryche nei loro anni d’oro.

domenica 15 giugno 2025

queensryche, 'the warning'

 


nel 1984, sotto la produzione di james guthrie, arriva il primo album dei queensryche, ‘the warning’. la formazione di seattle mette subito in tavola tutte le sue carte e inizia un percorso che toccherà picchi altissimi, partendo da un disco che sa di metallo americano anni 80 fino al midollo ma che si distingue da quasi tutto ciò che gli sta attorno, incluso l’ep che lo precede.


ci sono ancora maiden e judas priest, non c’è dubbio, ma nel suono iniziano a filtrare le tentazioni hard-prog dei rush e un immaginario distopico/futuristico/teatrale che prenderà sempre più il comando negli album successivi.

l’ispirazione è già a livelli alti e non ci sono particolari cadute, in compenso gli apici del disco sono capolavori divenuti classici immortali per tutti i fan.

il primo è ‘no sanctuary’, una power ballad che prosegue la linea di ‘the lady wore black’, allargando ulteriormente le trame, lavorando sulle dinamiche e creando lo scenario perfetto per l’incontenibile prestazione di tate. subito dopo c’è il secondo, ‘nm 156’, in cui si affacciano accenni digitali premonitori degli incubi di ‘rage for order’; è un pezzo in cui i riff di degarmo sono uno più bello dell’altro, in cui la ritmica alterna gli stop and go della strofa alla travolgente velocità del ritornello e in cui iniziano ad affacciarsi anche i sintetizzatori, un brano che dopo (quasi) 40 anni ancora non ci si stanca mai di ascoltare.

e non siamo ancora arrivati ai due momenti più alti del disco. ‘take hold of the flame’ lascia senza fiato, il suo teatrale crescendo iniziale, l’apertura epica e potente e un ritornello indimenticabile in cui ci si chiede se geoff tate sia un essere umano, è metal ma è molto più narrativo e cerebrale di ciò che gli sta attorno, sembra una sintesi più matura di ‘the lady wore black’. e allora che dire di ‘roads to madness’? quasi 10 minuti di mini-suite che inaugurano una tradizione di capolavori conclusivi durata almeno fino al 1999. ancora un inizio in crescendo in cui le chitarre alternano arpeggi puliti a riff che sanno di rush in paranoia mentre tate è ancora protagonista di una prova che definire maiuscola è un eufemismo: la sua potenza ha ben pochi rivali, dell’estensione non parliamone nemmeno e l’intensità della sua interpretazione toglie il fiato. la ritmica è un’altra arma del gruppo spesso sottovalutata, specialmente jackson al basso, sempre presente con belle idee e un gran suono, al contrario di moltissimi suoi colleghi. la cavalcata finale è la ciliegina sulla torta che chiude un album fantastico e, per molti versi, avanti sui tempi.


per la teatralità si potrebbe tracciare un parallelo con i savatage, i quali spingevano ancora di più su questo aspetto e meno sul lato progressive, pur avendo poi pubblicato 4 concept album propriamente detti. di certo a entrambi i gruppi piaceva mischiare certo broadway con il metal e avevano capito molto meglio di altri coevi l’uso delle dinamiche.

ho parlato dei capolavori ma le varie ‘warning’, ‘en force’ o ‘child of fire’ non sono molto da meno, canzoni dall’impatto potentissimo ma piene di particolari da scoprire ascolto dopo ascolto. 


il disco arrivò al posto 61 su billboard e la band fece un tour degli stati uniti aprendo per i kiss nel loro tour di ‘animalize’ e per i maiden in giro per ‘powerslave’. sì, dovevano essere delle gran belle serate.

se oggi ‘the warning’ può suonare acerbo è perché sappiamo dove sono arrivati i queensryche dopo, sappiamo che era solo l’inizio. se il gruppo si fosse sciolto subito dopo, probabilmente parleremmo di un album leggendario, un grande tesoro nascosto. ciò non deve togliere nulla ai suoi meriti che sono enormi oggi come lo furono al tempo.

sabato 14 giugno 2025

discordance axis, ‘the inalienable dreamless’

in fin dei conti il grindcore non è poi così diverso dal blues o dal cantautorato: il canovaccio è più o meno sempre simile, quello che conta è l’interpretazione personale e come viene recepita dall’ascoltatore.
gli americani discordance axis si sono formati nel ’91, sciolti nel 2001 e in questi dieci anni hanno pubblicato solo tre dischi. pochi? forse sì ma la verità è che gliene sarebbe bastato uno solo per scolpire il loro nome nella storia del genere: ‘the inalienable dreamless’, uscito il 23 maggio del 2000 per la hydra head di aaron turner.

in modo non tanto diverso dagli svedesi nasum, questi tre sono riusciti nell’improbabile impresa di rendere personale e originale il suono di una manciata di bulloni messa nel frullatore (mentre un tizio strilla). 
non c’è un vero “cambiare le regole” ma il tempo ha dimostrato come con questo album il trio abbia mostrato una direzione parallela, pur parlando sempre di grind selvaggio, canzoni da 35 secondi a 250 bpm con batteria in blast beat e rullate a ruota libera, chitarra (sì, singola, una basta e avanza) urticante, sadica ma perfidamente studiata e chirurgica e una voce folle, isterica e marcia che vi urla in faccia tutto il dolore della razza umana. tutto tutto eh.
queste pillole di follia sonora sono disseminate di tempi dispari, stop and go alla velocità della luce, riff dissonanti ma stranamente catchy, vuoti improvvisi in mezzo al massacro, una miriade di particolari perfettamente studiati e incastrati in un flusso unico che in alcuni momenti verrebbe da chiamare prog-grind ma che ha un tale trasporto da far pensare a certe derive emo/screamo. insomma, un impressionante equilibrio tra cuore e mente che all’epoca non si sentiva spesso nel genere.

la batteria di dave witte è un tornado continuo e non a caso dopo lo scioglimento del gruppo è stata al servizio di molte band (human remains, burnt by the sun, minicipal waste e molti altri), velocità e potenza sono disumane così come la precisione di ogni colpo e pausa ma è il lavoro si chitarra di rob marton a lasciare veramente esterrefatti: fantasioso, dinamico, con un senso ritmico pazzesco e capace di rivolti e scelte negli accordi che in qualche momento ricordano addirittura i monumentali blind idiot god, pur senza utilizzare alcun effetto oltre alla distorsione (tanto per ribadire il legame del grind con la filosofia hardcore).
su questo inferno di ghiaccio e fiamme si staglia la voce di jon chang, disperata, allucinata, un urlo incontenibile che si mantiene perlopiù su uno scream acuto e lancinante ma non manca di passare da momenti di growl cavernoso e orrendo.

non starò ad elencare i brani di un disco che dura 23 minuti e mezzo ma se volete fare una toccata e fuga per capire di cosa si parla puntate dritti su ‘pattern blue’, ‘loveless’o ‘jigsaw’, per quanto farsi sbranare dai primi due brani sia un’emozione indescrivibile.
‘the inalienable dreamless’ va assunto per intero, non c’è niente di superficiale o inutile, è un’esperienza catartica che può radere al suolo tanto il corpo quanto il cervello, un autentico capolavoro da sentire almeno una volta nella vita.


 

domenica 8 giugno 2025

queensryche, 'queensryche ep'

 


i queensryche sono stati uno dei gruppi metal americani più interessanti partoriti dagli anni ’80, protagonisti di un’evoluzione che li ha portati ad attraversare molte sfaccettature del suono metal prima e rock più tardi. hanno avuto un momento di enorme successo all’inizio degli anni ’90 ma l’inizio della loro storia è tracciabile fino alla fine dei ’70, quando a seattle il chitarrista michael wilton incontra l’altro chitarrista chris degarmo. 

i due suonano insieme per un po’, poi in vari avvicendamenti si perdono ma arriva il batterista scott rockenfield che con wilton forma i cross+fire, ai quali presto si aggiunge degarmo con il bassista eddie jackson e il gruppo cambia nome in the mob. la band suona cover di iron maiden e judas priest e si trova ad aver bisogno di un cantante per una serata, per cui viene ingaggiato un giovane dalla voce sovrumana dal nome jeffrey wayne tate, meglio conosciuto come geoff, più grande di qualche anno. dopo il concerto gli viene chiesto di rimanere col gruppo ma lui rifiuta perché non ama cantare cover e va nei myth con il chitarrista kelly gray, che (purtroppo) ritroveremo molto più avanti nella storia.

nel frattempo i the mob hanno scritto dei pezzi originali e vorrebbero registrarli ma sono ancora senza cantante, per cui viene richiamato tate che non solo accetta ma scrive anche il testo per uno dei brani, ‘the lady wore black’. 


quando il demo viene registrato il gruppo si chiama ancora mob e tate è solo un cantante ingaggiato ma oggi quando si ascolta ‘queen of the reich’ si fa davvero fatica a non pensare a tutto quello che è successo dopo. ad esempio quanto sia significativo che il pezzo si apra con uno stop di basso e batteria, visto che proprio la sezione ritmica diventerà una delle grandi armi dei queensryche. il pezzo trasuda metallo, brufoli, maiden e judas ma i suoi riff hanno un che di minaccioso, amplificato dal basso budget (il disco fu registrato di notte per poter lavorare di giorno) e dalla tipica produzione riverberata del periodo. quello che però colpisce subito è la pazzesca voce di tate, già capace di ottimi vibrato e di acuti inarrivabili, è la vera arma che varrà al gruppo il suo primo contratto, prima di cambiare nome spirandosi proprio al titolo di questo pezzo.

‘nightrider’ è altro classico metallone ottanta che nella sua intro prova già qualche gioco di arrangiamento strutturale, ricordando vagamente certi mercyful fate prima di gettarsi nel rifferama dei judas priest mentre ‘blinded’ non ci prova neanche, nel metallo nasce e nel metallo muore fieramente.


il pezzo più interessante del demo è di gran lunga ‘the lady wore black’, da tanti punti di vista. inizia come ballata, trainata da spettrali arpeggi di chitarra che fanno da base a tate, il quale mostra una sensibilità teatrale fin qui inedita che presto prenderà il sopravvento nel suo stile. la sezione ritmica entra alzando le dinamiche, poi tutto esplode in un ritornello che è un inno per i fan, in cui le chitarre si fanno di nuovo metallo e tate tocca vette inarrivabili. anche l’assolo di chitarra su tempo dimezzato sembra presagire futuri sviluppi e il pezzo resta ad oggi un grande classico, paradigma dinamico e strutturale per molti brani a venire.

‘prophecy’ chiude il demo con un altro proiettile metal, il cui scheletro in qualche modo verrà modificato e migliorato almeno fino a ‘rage for order’.


dopo le registrazioni tate se ne torna nei myth e non ha particolare voglia di stare coi mob, i quali continuano a cercare un cantante e intanto passano un anno a mandare il demo ovunque possano. si trovano almeno un manager, il quale però gli dice che i the mob esistono già e da qui si passa a queensryche, con la y per non essere presi per nazisti. sai com’è.

poi il demo arriva alla redazione di kerrang che ne fa una recensione entusiastica e tanti iniziano a parlare di questi queensryche, del loro cantante disumano e del loro demo fantastico, abbastanza che la 206 records decide di pubblicarlo così com’è, presentandolo come ep d’esordio che inizia a vendere discretamente. a questo punto geoff tate, che coi myth sta ottenendo ben poco, capisce come tira il vento e si unisce ai queensryche, completando una formazione che resterà invariata per 14 anni ed è diventata leggenda.

iniziano i concerti e il nome arriva a mavis brodey, manager della emi che, dopo aver assistito a uno di questi live offre alla band un contratto di quindici anni per sette dischi.


proprio allo scadere di questo contratto ci sarà una crisi insanabile nel gruppo ma non stiamo a pensarci adesso, torniamo invece a goderci questo mini-esordio di una formazione già pronta a diventare leggenda.