giovedì 3 settembre 2020

pain of salvation, 'panther'

a tre anni dalla rinascita con ‘in the passing light of day’, tornano i pain of salvation con ‘panther’, decimo disco in studio.

la turbolenta dipartita di ragnar zolberg, con conseguente rientro in pompa magna di johan hallgren, ha lasciato tutti un po’ perplessi: dopo il disco del 2017 sembrava che il gruppo avesse finalmente trovato una nuova compattezza, invece a metà del tour ci si ritrova con l’islandese cacciato malamente (pare) da gildenlöw e hallgren che deve sostituirlo alla chitarra e cori. più di recente è giunta la notizia della defezione di gustaf hielm, scombussolando ulteriormente l’immagine del gruppo.

tutto questo sembra non aver influito più di tanto sul nuovo disco: daniel scrive da solo musica e testi e suona tutti gli strumenti tranne un solo di chitarra di hallgren e la batteria (anzi, in ‘unfuture’ suona pure quella). spirito di gruppo, portami via.


‘light of day’ (o 'remedy lane 2') ci ha restituito una band in gran forma ma funzionava un po’ da bigino dei pain of salvation, riassumeva la carriera senza tentare grandi salti; ‘panther’ arriva in faccia con una valanga di synth digitali acidi e arroganti, mostrando la voglia di gildenlöw di portare la sua creatura in territori nuovi e questo è uno dei meriti più grandi di un album che funziona al suo massimo proprio quando osa e sperimenta. nonostante ciò, non avrete mai dubbi su chi abbia scritto la musica: il suono pain of salvation è marchiato a fuoco su ogni melodia e arrangiamento, in particolare le atmosfere di ‘one hour by the concrete lake’ tornano a più riprese in brani come ‘unfuture’, ‘keen to a fault’ o ‘species’.


togliamoci i dolori di mezzo. la pecca maggiore del disco sta nella chiusura, con due brani (‘species’ e ‘icon’) che per suono e approccio sembrano provenire da un altro album, oltre a non essere particolarmente ispirati per quanto non brutti. sembra di sentire una scia di ‘light of day’, i pain of salvation che giocano a fare se stessi, eliminando i synth e andando a scalfire la coesione del disco. la prima è una ballad dai toni folk che pare arrivare dalle sessioni di ‘road salt’ mentre la seconda è la lunga (13 minuti) chiusura drammatica, ha degli ottimi momenti ma non regge il paragone con chiusure passate come ‘the perfect element’, ‘beyond the pale’ o ‘enter rain’ e finisce col sembrare una ‘passing light of day’ sbiadita.

per fortuna il resto è tutto solido, di livello molto alto e con notevoli picchi: l’aggressione cyber-digital-prog di ‘accelerator’ e ‘panther’ è esaltante, ‘unfuture’ è scura e asfissiante come ’the big machine’ mentre lo spleen metropolitano di ‘restless boy’ è magnetico nonostante un ritornello fin troppo meccanico (un’alternanza di quintine e settimine che più prog non si può). ‘wait’ incastra bellissime melodie su un ostinato di piano di due misure in 11/16 e 13/16, per quanto sulla carta possa sembrare una sboronata, il risultato funziona molto bene; un po’ meno ‘keen to a fault’ che sembra citare i king crimson nella bella strofa per poi risultare un po’ facilotta nel ritornello. 


le strutture sono piuttosto lineari e semplici: nonostante i tempi dispari ci si trova spesso di fronte a strofa-bridge-ritornello, un po’ come fecero anche i rush quando scoprirono i synth. c’è più importanza ai singoli brani che a una narrazione orizzontale, portando il disco più vicino ad episodi come ‘scarsick’ o ‘road salt’.

è il suono generale a farsi ricordare, una versione digitalizzata e distopica del progressive del gruppo, senza dimenticare le classiche contorsioni ritmiche e l’emotività che è ormai marchio di fabbrica.

la “finzione di gruppo” funziona bene, gli arrangiamenti sono così stratificati e ripieni di synth ed effetti che la mancanza di una reale band non pesa particolarmente, non essendoci quasi mai un focus preciso su questo o quello strumento. comunque ottima la prova alla batteria di leo magrit.

tutto viene comunque messo in ombra dalla voce di gildenlöw. gli ultrasuoni di un tempo sono andati ma la voce è maturata e con essa una padronanza tecnica che ha del sovrumano: il controllo timbrico, le minime inflessioni, il falsetto, tutti strumenti per una carica interpretativa con cui ben pochi possono competere nel panorama progressive (e non solo), è la voce a trainare i pezzi, l’elemento umano contro i synth digitali, un po’ come nel concept.


ecco, il concept. non c’è una narrazione come in altri episodi passati, è più l’analisi sociale di un mondo che gildenlöw divide in ‘cani’ (i burocrati, gli ‘efficienti’, quelli che obbediscono senza porsi domande) e ‘pantere’ (i creativi, i diversi, gli esclusi) in maniera non scevra da una certa arroganza, un po’ come succedeva in ‘be’. comunque nell’argomento c’è da scavare e i testi lo fanno bene, presentando una serie di situazioni diverse in cui lo scontro fra i due mondi porta a riflettere sulle differenze e sulle proprie posizioni. resta un po’ di perplessità di fronte a versi come ‘heal our time, please heal mankind’, cantati con enfasi da musical che quasi manco michael jackson. il booklet si chiude con un “to be continued…” per cui pare che le pantere torneranno in futuro.


per chiudere, ‘panther’ è un gran disco, per certi versi anche meglio dell’ormai illustre predecessore, almeno nel suo cercare modi per dare nuova carica al suono del gruppo/progetto (mi si permetta una lieve riluttanza nell'uso del termine "gruppo" per questo album). molti alti e pochi bassi fanno un album che potrà fare schifo a qualcuno ma sicuramente emozionerà molti altri, più o meno come fanno tutti i disconi. non è così frequente che un gruppo/progetto/artistasolista, dopo 25 anni di carriera, ne sia ancora capace e ne abbia ancora voglia.

attendiamo il bis.