martedì 22 settembre 2020

napalm death, 'throes of joy in the jaws of defeatism'


i napalm death sono un caso musicale unico. con la loro nascita hanno praticamente creato il suono grindcore più di 35 anni fa insieme ai carcass, poi la formazione si è sparpagliata, non è rimasto più nessuno degli originali ed è arrivato il gustoso death di ‘harmony corruption’ con l'ingresso di barney greenway; poi le derive groove-industrial dai toni post-punk dei sottovalutati dischi anni ’90 come ‘diatribes’ o ‘fear, emptiness, despair’ per poi tornare a pestare come dannati negli ultimi 20 anni. la media qualitativa dei loro dischi è sempre alta ma ogni tanto se ne escono con un album che spicca e si fa ricordare più degli altri; è successo con l’animalesco ‘order of the leech’ nel 2002, è successo con il superlativo ‘utilitarian’ del 2012 che inseriva un’evidente vena hardcore nei pezzi e succede oggi con ‘throes of joy in the jaws of defeatism’ che va a pescare proprio dai citati anni ’90 del gruppo con sonorità che talvolta si avvicinano all’industrial, parti di synth che compaiono ogni tanto e una carriolata del classico groove di cemento del gruppo. questo non vuole certo dire che l’aggressività venga meno, il disco è infarcito di blast e parti a velocità smodata, non vi preoccupate.


bellissime le parti di chitarra, creative e con un suono urticante, un’altra prova eccellente di mitch harris che si riconferma come uno dei migliori chitarristi estremi in circolazione; il basso di embury è tanto animale quanto perfettamente controllato nei toni e nella distorsione mentre herrera è la solita macchina da guerra. barney non ci si spiega come possa ancora avere quel ruggito feroce, la sua voce è pura rabbia sputata in faccia con una violenza ai limiti dell’umano.


i pezzi “normali” sfoggiano un catalogo di riff pazzeschi, da ‘fuck the factoid’ (un’apertura apocalittica) a ‘zero gravitas chamber’, ‘backlash just because’ o la violentissima title-track sono tutti manuali di come fare musica che ti uccide la faccia (per dirla coi manowar) con riff imbizzarriti e urla col sangue agli occhi che continuano la polemica sociale iniziata con ‘scum’ tanto tanto tempo fa.

quello per cui però il disco si fa davvero ricordare sono i momenti più bizzarri: ‘joie de ne pas vivre’ è un gioiellino (già dal titolo) di noise-core guidato dal basso con la chitarra a produrre effetti alienati di sfondo e la seguente ‘invigorating clutch’ introduce strati quasi ambientali su un pezzo che si potrebbe definire dilatato per i napalm death. ‘amoral’ è uno dei pezzi migliori del disco, un momento in cui l’influenza dei killing joke si fa protagonista e si trovano addirittura delle melodie vocali mischiate al ringhio di barney, forse però è la conclusiva ‘a bellyful of salt and spleen’ a meritare la palma di miglior pezzo del disco, un incubo industriale in cui sembra che justin broadrick sia per un attimo tornato nel gruppo a portare una ventata di godflesh con dissonanze sferraglianti, batteria monolitica, rumori distorti e una voce alienata quasi ieratica (come la famosa voce dei king bong, per chi sa). 


non manca qualche momento un po’ generico ma in generale il disco non cala mai e intrattiene per 40 minuti abbondanti con una sfumatura dei napalm death non del tutto inedita ma sicuramente ispirata che convince ancora una volta dopo 35 anni di storia con una coerenza che ben pochi possono rivaleggiare, non solo nel metal. bello, bello, bello e bello, bravi cazzo. come sempre? no, un po’ di più.