lunedì 13 dicembre 2021

portrayal of guilt, 'christfucker'


ormai è da qualche anno che tengo d’occhio i portrayal of guilt, trio texano che ha già raggiunto ottimi risultati con ‘let pain be your guide’ del 2018 o ‘we are always alone’ di gennaio 2021.

due dischi in un anno quindi, visto che ora tornano con ‘christfucker’, un album ancora più maturo e ancora più devastante che mette in luce un ventaglio di influenze inaspettato e una creatività inedita per il progetto. se infatti in passato il gruppo stava in equilibrio tra hardcore, grind e momenti screamo, qui il buio si fa impenetrabile un po’ alla maniera dei full of hell e allo stesso modo si frullano grind, black, hardcore, industrial ed echi “post” desolanti, portando spesso (e volentieri) la mente ai capolavori dei today is the day.

è un disco senza compromessi che, pur non cambiando le carte in tavola per nessuno dei generi citati, si fa notare per un’intensità fuori dal normale e per un lavoro di chitarra decisamente più fantasioso e creativo della media dei gruppi estremi. volendo trovare un difetto bisogna dire che il mix non è dei migliori e un lavoro più curato (soprattutto sulla batteria) avrebbe fatto rendere ancora di più i brani; poi intendiamoci, non è musica che deve suonare cristallina e pop per cui il suo sporco (sporchissimo) lavoro lo fa eccome, forse però si poteva fare ancora di più, ecco.


c’è una vena breach che anima pezzi come ‘fall from grace’ o ‘dirge’, la quale in soli due minuti e mezzo riesce a travolgere sia a livello fisico che psicologico, soprattutto nel finale che strizza entrambi gli occhi a steve austin.

le derive noise di ‘bed of ash’ risultano molto più genuine e disturbanti di buona parte del materiale passato del gruppo, un incubo deforme e nero come il vuoto, mentre ‘the crucifixion’ sembra tirare una linea dai rites of spring fino ai giorni screamo della band, iniettando i brandelli di hardcore con una cattiveria tutta metal, un po’ come riuscivano a fare i migliori zao ma andando infine a schiantarsi contro una destrutturazione totale.

sul finale arriva ‘…where the suffering never ends’ che nei suoi tre minuti e quaranta tenta una scombinata forma canzone, obliterata dal crescendo di distorsione e feedback che la tronca brutalmente nel finale, prima che ‘possession’ riassuma in modo perfetto l’intero disco con dinamiche drammatiche e un break centrale pesanterrimo che finisce col chiudere il disco ringhiando e sbavando.


non è un disco rivoluzionario ‘christfucker’, già dal (bellissimo) titolo. eppure riesce a distinguersi dalla media per una sincerità di fondo, una genuina voglia di disturbare e destabilizzare l’ascoltatore in vari modi che, pur non essendo certo nuovi, riescono ogni volta ad arrivare dritti sulle ginocchia dell’ascoltatore per tutti i 28 minuti del disco.

in mezzo a tante sceneggiate e pagliacciate, i portrayal of guilt si distinguono dal branco per intensità, riferimenti e capacità di colpire sui denti, bravi bravi e ancora bravi.