giovedì 6 maggio 2021

the knife, 'shaking the habitual'

 


il successo, si sa, porta un sacco di artisti sull’orlo dello sbrocco. quanti ne abbiamo visti svaccarsi sugli allori e mandare bellamente affanculo qualunque ideale artistico avessero in nome a volte dei soldi, a volte della fama, altre volte di entrambe.

nel 2003 il frizzante ‘deep cuts’ dei the knife aveva presentato una personale via all’electro pop (dalle tinte techno) facendo faville mentre il successivo ’silent shout’ è stato uno dei dischi elettronici più incensati e blasonati degli anni 2000 (a ragione). poi in realtà il gruppo si è messo in pausa per qualche anno, dando il tempo a karin dreijer di pubblicare il meraviglioso esordio come fever ray, per tornare a sorpresa nel 2013 con ‘shaking the habitual’, un disco che non solo non si adagia sugli allori ma non fa niente niente niente di niente per starvi simpatico.


ostico sin dalla durata (un’ora e 35 su due cd), questo è un disco gnucco, sia a livello musicale che concettuale, è agguerrito, violento, disturbante ma a modo suo avvolgente ed emotivo. non bisogna comunque vederlo come un episodio separato dai precedenti: sì, ‘deep cuts’ era molto più melodico e lineare ma non mancavano momenti weird e gli arrangiamenti percussivi erano già parte fondante del suono dei knife e ‘silent shout’ spingeva ancora di più su una certa astrazione timbrica e strutturale che qui viene “solo” spinta alle estreme conseguenze.


intelligente è dire poco. solo il comunicato stampa per l’uscita del disco è un’opera d’arte, per non parlare dell’enorme fumetto che compone metà del bellissimo booklet, un’opera chiamata end extreme wealth disegnata da liv strömquist in cui con violento sarcasmo si parla dei problemi dei poveri ricconi del mondo.

è un disco che si occupa del presente guardandolo dal futuro, basando la sua essenza concettuale su tre punti: teoria gender/queer (il titolo è una citazione di michel foucault), ambientalismo e strutturalismo. è anche un disco che cita una frase di ‘blueprint’ dei fugazi (nel ritornello di ‘raging lung’, uno dei momenti migliori di tutto l’album) in mezzo a citazioni di jeanette winterson, karl marx e i salt-n-pepa; si ciba di melodie pop, solo che le risputa deformate dall’estetica dei due dreijer, che arriva spesso e volentieri ad essere antiestetica.


la densità è altissima, fin dalle due torrenziali canzoni che aprono il primo cd, ‘a tooth for an eye’ e ‘full of fire’. gli arrangiamenti sono percussivi anche per gli strumenti che non sono percussioni, l’atmosfera è asfissiante ma con una spazialità sempre evidente, per quanto aliena. le ritmiche sono ossessive ma i due pezzi non sono mai ripetitivi, contorcendosi in strutture imprevedibili con il celestiale timbro di karin filtrato e manipolato in modi orrendi e creativi; i riferimenti techno si perdono in un mare modernissimo che suona sorprendentemente organico e acustico, come per tenere sempre l’essere umano al centro dell’attenzione. se vi aspettate i ritornelli notturni di ‘fever ray’ siete del tutto fuori strada, semmai siamo più dalle parti del secondo ‘plunge’ ma qui di pop rimane ben poco, per non dire niente.

‘cherry on top’ è uno degli apici di follia: sopra un accompagnamento fatto da una cetra continuamente scordata ed effetti digitali, karin canta un’unica strofa con tono calcato e teatrale, un trip psichedelico di quasi 9 minuti difficile da dimenticare. per bilanciare, ‘without you my life would be boring’ coinvolge con un groove fittissimo in cui organico e digitale si confondono e mette pure in fila alcuni dei momenti più melodici del disco, affidati alla voce di karin col suo timbro naturale.

‘wrap your arms around me’ è un altro apice che vi scardinerà la mandibola, una nuvola densa fatta ancora di percussioni ma anche di droni e risonanze in mezzo ai quali fluttua la voce teatrale e drammatica, in toni che ricordano i dead can dance più scuri.


non è tutto oro, va detto. i 19 minuti di droni di ‘old dreams waiting to be realized’ sono esagerati (ma del resto lo è l’intero disco) e la cosa si ripete nel secondo cd, anche se in “soli” 10 minuti, con ‘fracking fluid injection’, dai timbri sgradevoli e disturbanti.

per fortuna altri momenti come la già citata ‘raging lung’ fanno dimenticare queste pecche: l’apertura del secondo cd è un altra mini-sinfonia percussiva in cui la melodia e gli arrangiamenti delle strofe ricordano a tratti certi nine inch nails (quelli più profondi e organici di ‘the fragile’) prima di aprirsi nel miglior ritornello di tutto il disco, con le parole dei fugazi a risuonare nel profondo per poi lasciare il posto alla lunga e spettrale coda strumentale in cui spunti di minimalismo ed echi folkloristici creano una texture avvolgente e ipnotica.

cosa resta? l’uptempo schizoide di ‘networking’, un proiettile simil-techno per una pista da ballo su venere in cui suoni alieni si confondono con vocalizzi trattati, la stupefacente ‘stay out here’ in compagnia di shannon funchess, una cavalcata cosmica di quasi 11 minuti con droni da altri mondi ad intrecciarsi sulle trame ritmiche mentre le due voci dialogano in continuazione sul testo di emily roydson; resta l’asciutto commiato di ‘ready to lose’, un altro tappeto percussivo dai toni questa volta caraibici su cui karin canta uno dei testi più umani e sanguigni del disco.


i riferimenti che il duo mostra lungo tutto il disco sono dei più eterogenei, vi troverete dalla techno di detroit a tocchi acid house anni 90, sospensioni armoniche che quasi sanno di debussy in acido e linee melodiche barbariche che potrebbero farvi pensare a bartok, dilatazioni psichedeliche da kraut rock ed estasi fisica sfibrante come fossero dei grateful dead fatti di pasticche invece che di lsd, l’impatto dei nine inch nails e il misticismo esotico dei dead can dance, una tavolozza di colori enorme che non sconfina mai nel mero name-dropping ma è sempre funzionale ai brani.

tanta carne al fuoco, a volte troppa ma volutamente: ‘shaking the habitual’ è un’affermazione, è un’opera pensata in ogni suo momento e dai messaggi profondi e complessi e i suoi apici son talmente alti da far dimenticare i pochi momenti di lieve stanca. è un album cerebrale e concettuale ma anche tremendamente fisico nei suoi beat danzerecci, una continua simbiosi di mente e corpo che alla fine lascia pieni e appagati come una sessione di meditazione all’aperto. 

riottosi, guerriglieri, provocatori, i the knife hanno dato vita alla loro personale visione del mondo e l’hanno racchiusa in un album da scoprire ed amare, un ibrido umano-sintetico che è un vero monumento alla creatività e alla sincerità intellettuale.