domenica 9 maggio 2021

rush, 'clockwork angels'


l’inevitabile fine arriva insieme ad un’ultima ventata di cambiamento: sotto la superficie di ‘clockwork angels’ si nascondono una serie di deviazioni dalle abitudini dei rush che portano ad un risultato strabiliante, apice del crescendo iniziato con ‘vapor trails’. prima ancora dell’analisi del disco va subito detto che questo è il miglior album dei rush almeno da ‘hold your fire’, e non è che in mezzo ci siano state schifezze.


alla fine del tour di ‘snakes and arrows’ i rush si prendono un anno e mezzo di pausa, poi si mettono da soli di fronte a una scelta: facciamo un disco o un tour mondiale? la risposta è sì. così mentre i tre iniziano a scrivere materiale per il nuovo album, viene organizzato il ‘time machine tour’ in giro per il mondo per suonare l’intero ’moving pictures’ più altri grandi classici.

fin dall’inizio i rush decidono che questo disco dovrà essere molto più coeso, sia tematicamente che musicalmente; per inidirizzare i lavori in questa direzione, neil inizia a sviluppare una storia vera e propria in un universo steampunk in cui confluiscono influenze letterarie e mitologiche di ogni genere, da conrad all’alchimia alle sette città d’oro.

da qui la scrittura sarà on/off per fare posto al tour che spezzerà in due anche le registrazioni, di nuovo seguite da nick raskulinecz. intanto, prima di entrare in studio i rush annunciano un contratto con la roadrunner, sancendo la fine del rapporto con la atlantic che li seguiva dall’89.

peart ha raccontato che per questo disco ha usato un approccio completamente diverso per l’arrangiamento e l’esecuzione dei brani: ha provato ogni pezzo qualche volta per vedere cosa poteva funzionare, poi ha chiamato raskulinecz che l’ha condotto come un direttore d’orchestra, lasciandolo libero di non pensare eccessivamente alle strutture e potendosi concentrare su uno stile più fluido e meno incastrato del solito. a 60 anni avere ancora voglia di evolversi.

alex invece decide di limitare gli strati di chitarre e corde varie e mantiene un approccio più rock, sfruttando di più i raddoppi e un suono aggressivo e grosso.

sebbene i dischi dei rush non abbiano mai avuto un vero protagonista oltre alla musica, in quest'ultimo album l'equilibrio fra i tre è ancora più marcato: raramente qualcuno spicca sugli altri, è l'incastro delle parti ad incantare e a reggere la musica.


se ‘2112’ e ‘hemispheres’ avevano una suite tematica, di fatto ‘clockwork angels’ è il primo ed unico vero e proprio concept album dei rush, una storia con un inizio e, sigh, una fine.

ancora una volta il livello medio si alza, tanto che l’unico pezzo un po’ sotto è la comunque divertente ‘wish them well’; per il resto i canadesi tirano fuori le armi migliori e non sbagliano un colpo. 8 giugno 2012 è il giorno.

il suono generale è molto più pesante e cupo di ‘snakes and arrows’, tende a recuperare sonorità di ‘couterparts’ e ‘vapor trails’ ma le mette al servizio della narrazione, con un piglio a tratti più teatrale che mai aiutato anche da un sestetto di archi.

‘caravan’ e ‘bu2b’ hanno alcuni dei riff più pesanti della carriera del gruppo e presentano un gruppo con una grinta fenomenale che però riporta di nuovo le tastiere per dare ulteriore profondità al suono nelle belle aperture. non mancano ovviamente le svisate strumentali fatte di obbligati, cambi di metrica e inversioni a u; non solo non mancano ma aumentano decisamente rispetto ai dischi precedenti, rendendo il disco ancora più dinamico e divertente.


ci sono dei picchi incredibili come l’incantevole title-track nelle cui strofe la chitarra tocca a tingersi di chorus come in ‘power windows’ prima di fragorose esplosioni nel ritornello e un assolo semplicemente perfetto, puro lifeson. come non citare poi ‘headlong flight’, progghissima e ironicamente autoreferenziale, è una canzone che i fan dei rush aspettavano da un bel po’: intricata, divertente, aggressiva ma narrativa, standing ovation. c’è poi ‘the wreckers’, un bellissimo pezzo più melodico che lee e lifeson hanno composto scambiandosi gli strumenti; il risultato è un brano più equilibrato e drammatico in cui gli archi fanno un ottimo lavoro nel sottolineare i passagi più intensi.

ma è difficile non parlare della furia mustica di ‘seven cities of gold’, della rushissima in ogni secondo ‘the alchemist’ o della morbida e commovente conclusione con ‘the garden’, non si vedeva una tale compattezza qualitativa nelle composizioni da ‘power windows’ che però durava 20 minuti di meno.

‘clockwork angels’ è una storia e va seguita per intero dall’inizio alla fine, ogni suo momento vi rivelerà qualcosa e tutti valgono la pena di essere vissuti.


dopo il disco seguirà l’abituale tour, questa volta in compagnia degli archi che accompagnano i tre per tutto il secondo set in cui il disco viene suonato quasi per intero; il tutto viene ancora una volta pubblicato anche in bluray come ‘clockwork angels tour’, un prodotto bellissimo da vedere e suonato in maniera pazzesca ma pesantemente penalizzato dalle carenze vocali di un geddy totalmente incapace di raggiungere le note del passato. se sui pezzi nuovi le linee gli permettono di essere più a suo agio, pezzi classici come ‘the spirit of radio’ o ‘2112’ lo mettono in grande difficoltà.


fine? no, ovviamente, sono passati dieci anni da R30, questo vuol dire che è ora di R40, l’ultima apparizione dei rush di fronte ai comuni mortali, un ultimo tour mondiale (con ritmi molto tranquilli e molte pause fra le date) in cui la band celebra il suo intero catalogo andando con ordine indietro nel tempo: si parte dai pezzi di ‘clockwork angels’ per arrivare a un finale con strumentazione minimale appoggiata sulle sedie sul palco e i tre a pestare duro con ‘anthem’ e ‘working man’. in mezzo c’è più o meno tutto quello che volete, un best of totale in cui vengono ripescate addirittura l’introduzione di ‘hemispheres’ e ‘jacob’s ladder’ assieme a ‘natural science’, ‘yyz’ e tutto il resto. vale lo stesso discorso del tour precedente per la voce ma ancora una volta, per l’ultima volta, la prestazione strumentale è a livelli disumani e i rush non potevano chiudere meglio la loro storia. se voleste averne le prove, ecco l’ultima uscita live, ‘R40’, che testimonia la grandezza di questo tour d’addio.


adesso è finita. i tre dicono basta senza dare particolari spiegazioni se non ‘mobbasta’. si parla di loro, loro parlano, dicono “sicuramente mai più tour grossi”, forse un disco, ne mancherebbe soltanto uno per chiudere il ciclo di 4, anche se ormai le uscite live si sono moltiplicate come conigli… ma di fatto non succede più niente. poi, all’inizio di quell’anno peculiare che è stato il 2020, precisamente il 7 gennaio, scopriamo che neil aveva un tumore al cervello da tre anni quando il batterista, poeta ed essere umano meraviglioso ci lascia, portando ufficialmente alla sua conclusione l’avventura dei rush dopo 40-qualcosa anni.


-chiusura molto poco oggettiva-


e adesso è dura chiudere. a più di un anno di distanza dalla morte di neil, ancora mi vengono le lacrime al pensiero che non esistano più i rush. non è tanto per il non avere musica nuova quanto per il fatto che sia finito un gruppo unico. tutti nella vita ci ritroviamo a dover scendere a compromessi con idoli musicali che sono delle teste di cazzo, degli squilibrati, tossicodipendenti o quant’altro. i rush no, sono sempre stati tre amici con un amore sconfinato per quello che facevano e questo si è sempre riflesso nella loro musica, complessa ma orecchiabile, intelligente, profonda ma divertente. unica. 

di gruppi come i rush se ne sono visti ben pochi nella storia, se se ne sono visti, e la loro eredità va mantenuta come patrimonio dell’umanità, altrimenti non abbiamo veramente capito un cazzo della vita. adesso metto ‘exit: stage left’ e piango, scusate.