domenica 9 febbraio 2020

rush, 'caress of steel'



‘caress of steel’ è il disco più sfigato, bistrattato e ‘maledetto’ della storia dei rush. perché è brutto? meh, no, non è brutto. è bello? uhm. nemmeno, però è un disco importantissimo nella storia del gruppo perché li ha portati a toccare il fondo e, come si sa, una volta che si tocca il fondo o si inizia a scavare o a risalire.
dopo il tiepido successo dei primi due dischi, la mercury inizia a fare pressioni sul gruppo per ottenere almeno un singolo di successo; loro come risposta offrono un pezzo di 20 minuti che occupa un’intera facciata (la seconda).
‘caress of steel’ non fa molto per venire incontro all’ascoltatore; pur non essendo un disco di noise o avanguardia, è un disco artisticamente ricercato, profondo e di non semplice lettura. ‘bastille day’ colpisce duro fin dall’inizio come aveva fatto ‘anthem’, con altrettanti cambi e obbligati, ‘i think i’m going bald’ e ‘lakeside park' sono gli ultimi brani dei rush a scopiazzare i led zeppelin, nessuna delle due è una brutta canzone ma di sicuro non sono niente di memorabile.

quello per cui va ricordato ‘caress of steel’ sono i due pezzi che chiudono il tutto, ‘the necromancer’ e ‘the fountain of lamneth’. il primo è il racconto di tre uomini che si avventurano in terre sconosciute, seguito da vicino dalla musica che si adatta man mano alla narrazione (uno spoken word di peart effettato e distorto), da morbida e sospesa a dura e incazzata, con il basso di geddy a definire uno stile che presto diventerà scuola, prendendo le distanze dai suoi idoli ispiratori (chris squire e jack bruce). i cambi si susseguono e l’attenzione non viene mai meno, c’è una cura incredibile nell’arrangiamento e nella strutturazione del brano che purtroppo però non sempre corrisponde ad ottime idee nel suonato: ancora una volta, niente di brutto ma l’ispirazione che travolgerà il gruppo di lì a poco sarà su tutt'altro livello.
‘the fountain of lamneth’, a detta di lee e lifeson, era una sorta di esperimento, un tentativo di scrivere un lungo brano epico in parti. i rush, al terzo disco e con un’età media di poco più di vent’anni, tentano il grande passo e a modo loro vincono; mettiamola così, almeno non perdono: il pezzo c’è, funziona e si lascia ascoltare più che volentieri, risulta però eccessivamente discontinuo ed elaborato, un enorme lavoro di rifinitura attuato su parti che però non sono certo tra le migliori cose scritte dal trio, c’è l’idea di base, inizia ad esserci il suono ma la suite risulta fuori fuoco, poco equilibrata e un po’ inconcludente. c’era l’idea ma non ancora i mezzi.
è il proverbiale passo più lungo della gamba? circa sì, preferisco vederla come una prova generale di quello che sarebbe successo di lì a poco. ci sono momenti ottimi, come la suggestiva parte ‘no one at the bridge’, con un bel solo hackettiano di lifeson, o il finale che presenta idee ritmiche che torneranno in ‘cygnus x-1’ ma il pezzo non verrà mai suonato dal vivo e sarà completamente dimenticato dal gruppo.

il tour di supporto al disco fu un fallimento, palazzetti vuoti, vendite irrisorie e locali sempre più piccoli, la mercury era ad un passo dal lasciarli per strada, non fosse stato per l’insistenza di cliff burnstein che ha sempre difeso a spada tratta il trio. c’era insoddisfazione anche riguardo alla copertina, la prima di hugh syme per il gruppo (d’ora in poi le curerà tutte): il disegno a matita concepito dall’artista venne tagliato dalla casa discografica che ne cambiò anche i colori, ad insaputa di tutto il gruppo che non apprezzò affatto la cosa.
i rush ne escono scornati ma con ancora una freccia da tirare. ‘caress of steel’ non è di sicuro il loro miglior disco ma ha una caratteristica fondamentale: non è piegato da nessuna logica di mercato, è un disco ricercato e artistico che fa esattamente quello che vuole fare. in quest’ottica testarda e quasi isolazionista è facile vedere il futuro della band, quel futuro che nel 1975 sembrava svanire con ogni club mezzo vuoto: era il fondo per i rush, da qui in avanti inizia la scalata.