martedì 9 luglio 2019

il fondo del barile #1: baroness, "gold and grey"



nuova rubrica qui al quartier generale dzw: ‘il fondo del barile’ comparirà ogni tanto, quando ne avrò voglia, per parlarvi malissimo di dischi brutti. in genere tendo ad evitarli, di solito sono solo noiosi, ma ogni tanto ne esce uno su cui vale la pena spendere due parole. come, ad esempio, il nuovo dei baroness.

‘gold and grey’ dei baroness è perfetto nel rappresentare il gruppo che l’ha prodotto: scritto male, suonato in maniera mediocre, cantato malissimo, prodotto col culo, registrato in maniera oscena e con un mastering che definire amatoriale è un eufemismo. è quasi sicuramente il disco più brutto che possiate sentire nel 2019, non ché uno dei più brutti che abbia sentito negli ultimi anni, praticamente una merda senza alcuna speranza di salvezza.
ma scendiamo nei particolari.

i baroness sono nati come brutta copia dei mastodon e già facevano schifo, poi sono peggiorati vertiginosamente (più o meno come i mastodon stessi). questa è la parte biografica, ora ascolto il disco.

quando premo play la prima cosa che mi salta all’orecchio è la qualità audio: la compressione è tale da radere al suolo ogni parvenza di dinamica, la batteria è sotto una schiacciasassi, non ha botta, ha un suono orrendo, le chitarre sembrano registrate con un registratore della barbie. sul serio, è uno dei dischi coi peggiori suoni che abbia sentito nella vita. fa schifo, sì, ma nulla in confronto a quando compaiono le voci: molli, mediamente stonate, prive di qualsivoglia carattere, non provano nemmeno a fare delle linee melodiche, sono lagne monotone affogate nel riverbero che si trascinano su un mare caotico di suoni confusi e brutti. a metà del primo pezzo le orecchie sono già stanche, grazie al mastering da asilo di cui sopra.

“i’m already gone” sembra quasi uno scarto dei paradise lost di fine ’90, l’arrangiamento è... boh, squallido, c’è una linea che separa il semplice dal banale, non sto a dirvi da che parte stanno i baroness. c’è un riciclo di riff e idee che è sconfortante, sembra di sentire un gruppetto emo-punk che cerca la potenza del metal senza avere alcun controllo del proprio suono, cercano la “raffinatezza” ma hanno la classe di un orinatoio del gods of metal. 
“seasons” è la stessa canzone ripetuta una seconda volta ma un po’ peggio, con un ritornello che sa di vichinghi ubriachi e metallari liceali.
“sevens” è l’intermezzo più inutile che possiate immaginare, fuori contesto e di una banalità agghiacciante ma almeno non distorce per due minuti.
“tourniquet” è un passo oltre: l’intro acustica mette in bella mostra lo strazio vocale, poi cambia in un riff che non c’entra un cazzo di niente, la voce si lamenta come in un gruppo emo di metà 2000, poi rubano della roba ai coldplay (non so se mi spiego); in tutto questo la batteria è suonata col culo, non ha groove, non ha botta e si perde pure qualche colpo per strada, non aiutata da un mix che tiene cassa e rullante in faccia e gli altri fusti nel bagno di fianco. 
 l’intermezzo “anchor’s lament” è pertinente quanto una mattonella di lardo a una cena vegetariana.
quando inizia “throw me an anchor” speri che stiano scherzando; l’introduzione è di un brutto indescrivibile, quando poi parte il pezzo è ancora peggio, con un ritornello vomitevole che sa di arena rock americano ma di quello che manco i 30 seconds to mars, che almeno qualche ritornello buono l’hanno scritto; non è che si rasenta il ridicolo, sono veramente scoppiato a ridere, pare la colonna sonora di un teen movie anni ’90 fatta da bon jovi in eroina, però registrato male su videocassetta e il suono è tutto rovinato. invece l’hanno fatto apposta. rock.

arrivato a questo punto del disco mi rendo conto che non è ancora successo assolutamente niente, i baroness fin qui sono riusciti a non dire niente e a farlo pure male.
“i’d do anything” è una deliziosa ballata cantata da un punk sordo. no, dai, non è vero. non è deliziosa, manco per il cazzo, ancora una volta suona squallidamente emo con un arrangiamento che la rende completamente avulsa dal contesto. sempre che esista un contesto, inizio a chiedermi. “blankets of ash” mi risponde con glitch digitali, una chitarra acustica e dei cori. ok, no, non c’è alcun contesto, non c’è alcun filo logico. “emmett” è un tripudio di pessimi effetti sonori pacchiani e un coro che vagamente forse da qualche parte vorrebbe ricordare townsend ma forse vuole solo suonare sontuoso e invece fa ridere, enfasi drammatica in un disco registrato in cantina.
se conoscete gli anathema, “cold-blooded angels” l’avete già sentita circa 153 volte, solo fatta molto meglio di così. poi, all’improvviso, esplode. non me lo sarei mai aspettato, wow, che sorpresa, è diventata esattamente come TUTTE LE ALTRE CANZONI DEL DISCO. in compenso scompare improvvisamente il volume, “effetto dinamico”. io lo chiamo più mastering a cazzo di cane, vi lascio qui una foto delle onde dei pezzi, giudicate voi.

"ehi, questo gruppo non ha dinamica, comprimiamo tutto
e abbassiamo il volume, vedrai che figata."

mi mancano 20 minuti, mi sto trascinando per arrivare alla fine ma ce la devo fare, è una questione di principio.
“crooked mile” è un altro intermezzo inutile, “broken halo” parte con un merdone di batteria (per esecuzione, intenzione e suono), poi è ovviamente uguale a tutte le altre, melodia lagnosa, chitarre inutili che ogni tanto provano a fare un riff, batteria zoppicante, suoni osceni. mi rendo conto che questo track-by-track è un po’ tutto uguale ma... cosa dovrei dire di un disco in cui non succede mai niente? qui si aggiungono delle brutte tastiere anni ’90.
poi che è, vogliamo farci mancare un altro intermezzo? diciamola tutta, “can oscura” è il pezzo meno peggio del disco, due minuti di batteria con delay e suoni stronzi su pedale di basso, inutile e suona molto male ma è senza dubbio l’unico momento passabile dell’album. poi ci pensa “borderlines” a riportarci alla realtà, coi suoi 6 minuti di melodie ridicole, batteria molle, chitarre che clippano continuamente, soluzioni armoniche trite e ritrite e idee che si fanno dimenticare due secondi dopo l’ascolto, tra cui un mezzo plagio di “detroit rock city”. verso la fine c’è uno stacco che non farebbe schifo se la batteria non zoppicasse, poi si finisce con dei banalissimi suonini di chitarra “post-rock”.
ce l’ho quasi fatta; per fortuna “assault on east falls” è un altro intermezzo inutile, questa volta di soli synth ed effetti, ancora una volta non c’entra assolutamente NIENTE col resto del disco ma almeno non è cantato e non clippa. poi è roba che dopo il ’70 suonava già vecchia, questa è un’altra questione, così come il tirare in ballo i tangerine dream in un disco emo-punk-pop-teen-metal.
per punizione, “pale sun” mi accoglie con un bel coro, una batteria stortina che cerca il groove in maniera impacciata e di nuovo quei vomitevoli suonini “post” stantii e riciclati, per non parlare degli ennesimi arpeggi rubacchiati un po’ qua e un po’ là (molto classic rock americano, ogni tanto del metal, a volte qualcosa di prog per sentito dire). è una traccia che prova a sperimentare, peccato che quello che fa l’abbiamo già sentito tutto tra il ’95 e il 2005. e viste le portentose capacità vocali del gruppo, è giusto che sia proprio la voce a chiudere “gold and grey”.

non so bene come ho fatto ma ce l’ho fatta.
questo disco non è solo brutto, è un disco sintomatico di questo momento musicale: sembra il disco di un politico, parla per un’ora senza mai smettere e non dice niente. la sua non è innocuità, è attiva inutilità e per certi versi è pericolosa: l’ascoltatore con poco bagaglio può pensare che questi si siano inventati qualcosa, che siano un gruppo “moderno” e originale e potrebbe usarli come metro di giudizio, senza rendersi conto che quelli da cui i baroness copiano già copiavano pesantemente a loro volta.
quanto al suono, anche questo è un aspetto che andrebbe analizzato: quanto le loudness wars hanno influito sugli ascoltatori? in quanti si renderanno conto degli errori clamorosi commessi in fase di mix e master? pochi probabilmente, viste le recensioni che si leggono in giro, ma qui non si parla di gusti, qui si parla di errori tecnici e di musica semplicemente fatta male, con poca padronanza dei propri mezzi e un’idea alla base estremamente povera. certo, non tutti sono musicisti o fonici o tecnici della musica ma mi chiedo se veramente il pubblico possa apprezzare un prodotto che suona così male o se siano solo i recensori al servizio delle etichette che provano a venderlo.

la definizione di merda è “scarto”, quello che non serve o fa male viene buttato fuori. 
non vedo definizione migliore per “gold and grey”.