giovedì 1 ottobre 2015

crosby, stills & nash, "daylight again"



facile odiare ‘daylight again’, l’ho fatto anch’io per un bel po’ di tempo. perché? perché è un disco fortemente anni ottanta da parte di una band il cui suono è sempre stato radicato nella tradizione degli anni 60/70 se non ben prima. perché è fondamentalmente un disco di stills e nash a cui crosby è stato invitato solo all’ultimo, quando la atlantic ha rifiutato il progetto originale ed ha fatto finire le sessioni di registrazione a spese degli artisti: no crosby, no party. e quindi il baffo arriva in studio in condizioni pietose, ricoperto di croste, ingrassato e distrutto da eroina, cocaina e quant’altro, non esattamente lo scenario ideale per ricostruire il feeling che ha reso capolavori i dischi del passato. facile capire perché i due compagni abbiano sostituito quasi tutte le sue voci con quelle di timothy schmit dei poco e art garfunkel: di fatto crosby compare solo nei due pezzi che porta al gruppo di cui uno solo è scritto da lui, la splendida ‘delta’, ultima sua commovente composizione prima di anni di buio, galera, droga e tutto il resto. e, come se non bastasse, per ‘delta’ dobbiamo ringraziare jackson browne, grande amico del baffo che l’ha costretto al pianoforte con la forza, senza lasciarlo alzare per alcun motivo fino alla fine della composizione.

una volta che si accetta il fatto che il suono è diverso e si riescono ad identificare le perle nell’album non è poi così difficile mettere ‘daylight again’ in rotazione poiché questo è l’ultimo disco consistente del supergruppo; anche i momenti più deboli (quasi tutta la seconda facciata ad eccezione degli ultimi due pezzi) non sono mai disgustosi come capiterà dopo (i due dischi in studio successivi sono un disastro con tanto di synthacci anni 80 e canzoni orrende scritte da gente più o meno a caso, per non parlare delle schifezze soliste di stills di quel periodo; riuscirà a salvarsi, anche se non benissimo, solo nash con il decente ‘earth and sky’).

a salvare il disco sono alcune canzoni che ancora riescono ad emozionare come ai vecchi tempi, almeno una a testa per ognuno dei tre: nash riassume la carriera del progetto nella calda melodia country-pop di 'wasted on the way’, programmatico inno radiofonico che non può non prendere l’ascoltatore per mano. di crosby si diceva ‘delta’, toccante momento autobiografico in cui david riflette su ciò che è diventato usando ancora una volta quell’immaginario marino che già graziò a loro tempo ‘wooden ships’, ‘the lee shore’ o ‘shadow captain’. ma il colpo grosso lo fa mr. stills con l’epica ‘southern cross’, un pezzo fantastico che mette insieme soft-rock con venature latine ed enfasi soul nel ritornello corale, riportando l’impasto vocale del gruppo in primo piano. non contento il biondino va anche a recuperare una vecchia canzone dei primi ’70 che è quella che dà il nome al disco: ‘daylight again’, posta in chiusura, con l’aiuto di garfunkel ai cori, fa scendere una lacrima di nostalgia; parla di padri fondatori, di sangue sulla terra e di soldati persi per strada e va a fondersi perfettamente sul finale nella classica ‘find the cost of freedom’, inno stillsiano per antonomasia nonché a suo tempo b-side del capolavoro ‘ohio’ di neil young.


e il resto? il resto non è da buttare. ‘turn your back on love’ e ‘into the darkness’ sono due bei rockazzi che non mandano a dire le cose e completano una prima facciata memorabile; la seconda parte gira un po’ su se stessa senza mai colpire a fondo ma non segnala grosse cadute di stile. se vi piace il suono del gruppo non troverete nulla di orribile qui dentro e una volta che metterete il cd nell’autoradio potreste tenerlo in macchina per un bel po’ di tempo. è un disco con alcune cose mediocri ma stills e nash hanno lavorato duro per farsele perdonare e, alla fine, il giudizio non può che essere positivo. ciò che verrà dopo è, ahimé, tutt’altra storia.

venerdì 4 settembre 2015

opeth, 'deliverance'



ricordo bene quando uscì 'deliverance'. era il 2002 e mi ero innamorato degli opeth grazie al precedente capolavoro 'blackwater park', indiscutibilmente una delle migliori cose che siano mai state create con la materia metal. era molto molto difficile per mikael bissare un disco così immenso e infatti non ci è mai più riuscito, anche se più avanti riuscirà a tornare su ottimi livelli ('ghost reveries' e 'pale communion').
dove fallisce 'deliverance'? innanzitutto è bene dire che il disco non fallisce del tutto, non lo si può definire assolutamente un brutto disco, il problema è che dopo due dischi profondamente immersi in un'atmosfera molto caratteristica, questo suona freddo e distaccato e non è una cosa che funziona con gli opeth. 'still life' era tutto avvolto in quella foschia rossastra demoniaca che nascondeva orribili presenze nella brughiera; ancora di più nel disco dopo, quando parte 'the leper affinity' si è lì, a blackwater park, immersi nella nebbia e nel freddo invernale, sono viaggi in posti unici che solo questi quattro svedesi potevano descrivere in musica. 

'deliverance' invece, tanto per cominciare, parte con uno dei due pezzi peggiori del disco: 'wreath' non è molto più che una serie di riff incollati uno dopo l'altro che, per quanto tutti belli, non riescono a raccontare una storia o ad evocare particolari immagini. e va ancora peggio con la chiusura del disco, la completamente inutile 'by the pain i see in others', un pezzo che il gruppo stesso ha totalmente dimenticato nelle scalette dei concerti. cosa tiene in piedi allora questo album? la parte centrale. in particolare il secondo ed il terzo pezzo: la title-track è l'unica canzone che riesce a sfruttare il distacco della produzione per creare un mostro cerebrale e contorto che gioca con l'ossessione per creare tensione, la rilascia in un break melodico da applausi per poi sguazzarci in un finale da strapparsi la faccia con un riff secco, meccanico e sincopato ripetuto per un paio di minuti di fila in chiusura, da manuale. 'a fair judgement' invece è una ballata che non ha molto da invidiare a 'face of melinda' o 'harvest' in quanto a intensità e questo già fa capire quanto valga il pezzo. qui la produzione di steven wilson si fa sentire più pesantemente, soprattutto nelle armonie vocali che arricchiscono la parte centrale, in generale questo è l'unico pezzo del disco (insieme al breve intermezzo 'for absent friends') che davvero resti dentro con un'atmosfera piovosa e pesante che non si dimentica in fretta.
'master's apprentices' è un giochino che diverte e funziona abbastanza bene ma non certo al livello dei due pezzi precedenti: fondamentalmente nella sua prima parte è un tributo ai morbid angel, ritmica lenta con tappeto di doppia cassa, riff asfissianti e voce più profonda che mai, prima di passare ad un'inaspettata (neanche troppo) parte melodica centrale con ancora dei bei cori ad opera di wilson. carina ma anche questa ormai dimenticata da anni.

i suoni in generale sono forse i più metal che il gruppo abbia mai avuto, trigger in primo piano, chitarre compresse e spazio secco; stupisce che una produzione di steven wilson prenda questa direzione ma del resto era il periodo di 'deadwing' quindi non si fa fatica a crederci. c'è da dire che come suoni puramente metal sono tra i migliori che si siano sentiti negli ultimi (più di dieci) anni.
forse quello che lascia più amaro in bocca di tutto è che di fatto 'deliverance' è il primo passo "indietro" degli opeth, almeno qualitativamente, e forse è questo che lo blocca un po'. ciononostante questo disco ha fatto esplodere il gruppo nel mondo ancora più di 'blackwater park', grazie anche a un tour pressoché infinito visto che si è poi legato a quello del successivo 'damnation', ovvero il disco che doveva rappresentare la parte melodica e prog degli opeth e invece finiva solo con l'annoiare a morte con pezzi scritti male, arrangiati circa e suonati peggio (l'entusiasmo della gente per un pestone come martin lopez mi rimane un enigma. dal vivo era mediocre alla meglio, su disco i suoni son sempre stati una schifezza e la tecnica era quella che era.). dopo gli svedesi si riprenderanno con l'ottimo 'ghost reveries' per poi crollare a picco col pessimo 'watershed', il loro punto più basso in assoluto insieme a 'damnation'. il titolo watershed tra l'altro sarebbe stato molto più adatto per questo disco, visto che dopo 'deliverance' gli opeth non sarebbero mai più stati gli stessi, nel bene o nel male.

in fin dei conti questo disco vale averlo per quei due pezzi più 'master's apprentices', parliamo comunque di quasi 35 minuti di ottima musica; se poi vi piacciono anche gli altri pezzi, viva viva. se non conoscete gli opeth lasciatelo stare e andate a ritroso da qui nella discografia.

sabato 18 luglio 2015

casualties of cool



non ho avuto un gran rapporto con il townsend post-'ghost'. ho trovato 'epicloud' di un'inutilità difficile da battere per poi essere contraddetto dalla agghiacciante coppia 'z2'-'sky blue', due dischi di una bruttezza rara, mischioni di roba riscaldata, trita e ritrita e con poco o nulla da dire. tralasciamo l'inutile live 'retinal circus'. per questo è stata grossa la mia sorpresa con questo 'casualties of cool', lavoro che ricalca sì le linee guida di 'ki' e 'ghost' (i migliori del periodo devin townsend project) ma le immerge in un concept onirico e sballato che restituisce un'atmosfera sempre sospesa, sempre a un passo dal concretizzarsi per poi rimanere nello spazio.

due parole su questo concept: un viaggiatore spaziale viene attirato su un pianeta deserto ma cosciente che si nutre della paura di chi vi atterra. qui trova una radio da cui una voce di donna lo guida/consiglia per tutto il tempo, interpretata da ché aimee dorval, già ospite su 'ki'.

musicalmente townsend decide di descrivere tutto questo mediante una miscela obliqua di country, psichedelia e ambient: qualche soundscape si agita sempre dietro ai pezzi, dando il senso dello spazio profondo mentre la ritmica minimale viene più o meno espressa da una batteria (a sorpresa compare morgan ågren) di non più di quattro o cinque pezzi e un basso spesso astratto e lontano. le chitarre acustiche reggono il più della baracca e sono chiaramente lo strumento su cui il tutto è stato scritto e spesso anche le voci diventano strumento, parte della tessitura sonora creata dal canadese. la voce di ché aimee dorval è perfetta nel solcare le morbide onde psichedeliche, con un timbro convinto e deciso che quando vuole prende da solo il comando delle canzoni mentre la voce di townsend è più che altro utilizzata per cori e texture di sfondo, una cosa che l'amico sa fare molto bene da tanti anni (qualcuno ancora si ricorda 'ocean machine'?).
seppure la musica non sia lontana dagli standard sonori di townsend, c'è un'intenzione che pone 'casualties of cool' su un percorso parallelo alla carriera del canadese. sicuramente c'è una dinamica più cinematica, fortemente legata alle scene della storia, ma anche a livello puramente di mix si sente l'intento di creare un effetto tridimensionale straniante e molto affascinante in cui gli strumenti giocano su piani diversi,  una sorta di via di sovrapposizione dei suoni crudi di 'ki' sui panorami mozzafiato di 'ghost' a cui il concept dona un focus molto preciso, restituendo all'ascoltatore un senso di spazio sconfinato. 

è un disco da prendersi tutto di fila, nonostante l'importante durata di quasi 74 minuti. lungo, sì, ma non lo ascolterete tutti i giorni, richiede il suo tempo, calma e disposizione a lasciarsi andare. dopo qualche ascolto dal marasma inizieranno a fuoriuscire le forme delle canzoni e allora 'flight', 'the code' o 'ether' spiccheranno per il loro equilibrio fra le varie parti che le costruiscono e sopra a tutte ci sarà la gemma 'bones', costruita su una melodia commovente che regala al pezzo un respiro dinamico incredibile, forse il più bel pezzo di townsend degli ultimi 10 anni.

ci sono voluti un po' di ascolti per assimilarlo ma alla fine 'casualties of cool' mi si è imposto come uno dei lavori più fantasiosi, creativi, originali e riusciti della carriera di devin e ciò mi fa molto felice perché iniziavo davvero a darlo per cotto. non si sa se questo progetto verrà replicato o meno, sinceramente poco mi importa al momento, sono solo contento di avere un nuovo bellissimo viaggione da godermi ogni volta che voglio. 

sabato 4 luglio 2015

toto, 3 luglio 2015, estathé market sound, milano



potrei stare qui ore e ore a dirvi quanto sono fighi i toto, quanto sono bravi i toto, quanto sono belli i toto. no, magari belli no. non lo farò per ore ma a breve ve ne parlerò. quello che più mi preme invece è, una volta tanto, fare una standing ovation a chi ha autorizzato e permesso questo "estathè market sound" che ha il suo peggior difetto proprio nel nome, perché il resto del baraccone è veramente bello. per una volta tanto l'area concerti non è un parcheggio di merda in cui si mette a rischio la vita di decine di migliaia di persone (chi ha organizzato i metallica al forum ne sa qualcosa, criminali a cui andrebbe tolto il dirotto di parola). invece l'area ha varie zone d'ombra, posti per sedersi e soprattutto cibo buono (molto), vario (dai panini c'aa mortazza agli hamburger di scottona passando per macedonie, sciatt, pasta e altro) e a prezzi accessibili per tutti. speriamo che tutti gli idioti incompetenti che organizzano i vari festival da quattro soldi che ci ritroviamo nel "bel" paese imparino da chi le cose le sa fare.
a proposito di organizzazione, quanti concerti abbiamo visto iniziare con mezzore se non ore di ritardo? troppi. i toto erano annunciati per le nove e alle nove spaccate fanno il loro ingresso sul palco. da lì sono cominciate due ore di concerto fenomenali. innanzitutto ringraziamo kimball per essersi tolto di mezzo, gli si vuole bene ma la sua voce era da anni che non reggeva più un concerto intero; joseph williams invece è uno dei cantanti più impressionanti che abbia avuto l'onore di vedere dal vivo. in due ore mai un calo, mai una sbavatura, un paio di acutazzi glissati con classe si perdonano senza alcun problema. chi invece vocalmente inizia a sentire gli anni è sicuramente lukather che nei suoi brani da lead fatica a tenere le linee e sembra decisamente affaticato. poco male, il resto è stato perfetto in ogni sfumatura. la scelta di shannon forrest come batterista mi aveva all'inizio lasciato perplesso; in realtà l'americano si è rivelato azzeccatissimo per almeno due motivi: il primo è il suo essere evidentemente cresciuto a pane e jeff porcaro, il che sta perfettamente in linea con le scelte di 'xiv', un batterista più dentro la musica e meno invasivo di simon philllips (sia sempre lodato in ogni caso). il secondo motivo è sempre legato a simon: se l'inglese ha sempre avuto parti molto fitte e piene nel suo modo di arrangiare, forrest lascia molto più spazio e questo spazio è tutto regalato a uno dei grandi ospiti di questo tour, mr.lenny castro in persona, percussionista presente su centinaia di dischi, sicuramente ne avete qualcuno in casa e non lo sapete. il suo apporto ritmico è fondamentale per riempire il tessuto sonoro ed equilibrarlo, togliendo lo sbilanciamento hard che ha caratterizzato tutte le uscite con phillips in studio e conseguenti tour.
altra menzione d'onore per il redivivo dave 'mattarella' hungate, bassista della prima formazione che torna a rimpiazzare il compianto mike porcaro (a lui, al fratello jeff e a chris squire lukather dedica 'the road goes on'). il suo groove limpido e ficcante compensa la sua totale assenza di presenza (!) scenica: è un docile vecchino canuto che sta in un angolo e ti spacca il culo. allo stesso modo steve porcaro con i suoi synth riporta a noi i suoni di quell'era che fu, ballando tutto il tempo e prendendosi anche una lead con la perla 'takin' it back' recuperata dall'esordio del '78. anche paich sembra più in forma del solito: dimagrito un po', si alza addirittura dallo sgabello per ballare, gigioneggiare e fare un po' il pirla (discutibili e trascurabili i suoi due soli al piano). ottima la scelta di portarsi dietro due coristi per riempire quelle armonie vocali che hanno sempre posto i toto un gradino sopra a tutti.
per concludere, una serata indimenticabile al termine della quale non avevo veramente nulla di cui lamentarmi. posto bello, inizio in orario, gruppo in forma e concerto sublime con vari apici, da 'i'll supply the love' a 'i won't hold you back', 'stranger in town', 'takin' it back' e il fenomenale primo bis con una 'on the run' pazzesca, attaccata alla fine a 'goodbye elenore'.
a parte il concerto meraviglioso, se c'è qualcosa che vi interessa a questa rassegna vi consiglio di andarci perché l'area è fatta davvero bene e vale la pena incoraggiare operazioni simili da parte di chi ha i soldi e li può usare. in culo a live nation, posteitaliane (il postepay festival. ma ci rendiamo conto? questi ci prendono per il culo anno dopo anno con la loro associazione a delinquere e in più cercano di ammazzarci tutti in un recinto di container) e tutti gli altri incompetenti.

e in ogni caso, i toto non smetteranno mai di insegnare a tutti come si fa a suonare. per fortuna.

lunedì 22 giugno 2015

the mars volta, "de-loused in the comatorium"



vi ho parlato di tutti gli altri dischi e in ogni recensione ci ho tenuto a specificare: tutti i dischi sono belli, tutti i dischi sono a modo loro riusciti, ma 'de-loused' non si batte. penso sia giunto il momento di spiegarvi perché. lo farò con molta calma, sapevatelo.

c'erano una volta gli at the drive-in. ora, facciamo finta per un attimo che ci piacessero (no, mi han sempre fatto veramente schifo), oppure no, l'importante è riconoscergli l'importanza che hanno avuto nel declinare alla loro maniera il verbo "core" (io coro, tu cori, egli core) a cavallo tra i 90 e gli 00. molti li mettono nella categoria "emo" e per certi versi non posso che essere d'accordo. di certo quando si sono sciolti nessuno (io mai e poi mai nella vita) avrebbe pensato che quello che avrebbero fatto dopo sarebbe stato così distante da ogni punto di vista. da una parte abbiamo la semplicità della melodia e dell'impatto su cui si basavano gli atdi, dall'altra l'elaborata complessità cerebrale che anima ogni parto dei mars volta. come si uniscono i puntini? con de-loused, uno di quei casi in cui """""disco di trasizione""""" vuol contemporaneamente dire "equilibrio perfetto".

infatti il miracolo di questo disco sta proprio lì, nel suo bilanciare in maniera perfetta la fisicità delle passate esperienze con la nuova forma mentale 'progressive', non ancora compiuta e quindi ancora più efficace nello spingere il gruppo a lanciarsi con benedetta ingenuità in composizioni tortuose ma che mantengono un controllo della struttura ben saldo e molto più classicamente rock rispetto a ciò che succederà dopo.
è un concept? pare. qualcuno ci ha capito qualcosa? no. c'è un protagonista chiamato cerpin taxt che cade in coma per una settimana e tutto il sogno delirante che ne consegue (vogliamo menarcela e vedere i punti di contatto con "the lamb lies down on broadway"? no, limitiamoci a notare la somiglianza) con creature bizzarre, sottomarini, nomi strani e parti del corpo intercambiabili. forse, o forse no. esiste anche un lungo scritto in prosa di cedric che racconta tutta la storia, ci ho capito ancora meno che dai testi. ma poco importa, quello che è interessante notare è il largo uso che cedric fa di parole inventate e ibridi strani che spesso fanno risultare la voce più come uno strumento tramite pronunce e attacchi ritmici molto accentuati.

'de-loused' è anche il frutto di una formazione durata solo un attimo: rimasti senza la bassista eva gardner (andata poi con pink e moby), i due ripiegano su un turnista per il disco e questo turnista si chiama michael balzary, meglio conosciuto come flea; capite che avere come sezione ritmica jon theodore e flea dà una certa impronta alla musica, sicuramente il groove e l'impatto non mancano. a quel punto si aggiunge anche l'amico john frusciante che contribuisce al delirio di 'cicatriz esp'. c'è poi la triste vicenda di jeremy michael ward, effettista, tecnico del suono e della manipolazione audio responsabile di quasi tutti i soundscapes del disco ma trovato morto pieno di droga un mese prima che l'album uscisse (ma non prima di trovare un misterioso diario sul sedile posteriore di una macchina che stava confiscando. su questo diario sarà basato il concept di 'francis the mute'). last but not liszt, rick rubin, meritevole di menzione almeno per un paio motivi: 'de-loused' è l'unico album del gruppo a non essere prodotto dal solo rodriguez-lopez e questo già gli conferisce un aspetto diverso da tutti gli altri; il fatto che questo produttore sia mr. rubin crea poi una serie di ripercussioni musicali, essendo lui famoso per la sua capacità di dare una direzione ed un senso ben precisi agli album che produce, oltre ad essere esperto di vari generi ed avere un orecchio speciale (e anche l'altro non è male!).

tutto questo già mette 'de-loused' in una prospettiva diversa da tutti gli altri dischi dei mars volta e non abbiamo ancora parlato delle canzoni. è chiaro che anche da questo punto di vista, l'album si differenzia rispetto agli altri. prima parlavo di equilibrio, anche le canzoni si basano proprio su di esso riuscendo ad essere sì lunghe e con molti cambi di tempo e dinamica ma mantenendo una melodicità salvagente: quando si sta annegando nel mare strumentale, la voce offre un appiglio per restare nel pezzo, cosa da nei dischi dopo verrà un po' a mancare. fin dall'intro 'son et lumière' sono proprio i ricami di cedric che restano più in testa, anche perché con 'inertiatic esp' si è subito in un frullato nevrotico che necessita di un po' di ascolti prima di mostrare tutti i suoi strati, a partire dai bellissimi incastri ritmici in 6/8. va ancora peggio con 'roulette dares', schizofrenia in musica col suo riff tarantolato, aperture larghissime e un ritornello che non si dimentica, prima di una sezione strumentale con jon theodore protagonista a trainarsi tutti dietro. ed è sempre lui in testa alla fila in 'drunkship of lanterns'; basata su ritmica baion (o baião) brasiliana che regge tutto il pezzo, la canzone è tra le più riuscite del disco grazie ad un impianto strumentale potente ma equilibrato e a linee vocali catchy e piene di quel feeling unico che cedric ha.
'eriatarka' sposta il peso sulla melodia e colpisce tanto per la dolcezza della strofa quanto per l'isterico ritornello, un altro colpo a segno che apre la strada per quello che è probabilmente il capolavoro di tutto il disco: 'cicatriz esp'. mentre in futuro i brani lunghi del gruppo diventeranno ancora più lunghi e con varie direzioni al loro interno, 'cicatriz' nei suoi 12 minuti e mezzo riesce a rimanere sempre focalizzata e spedita, anche quando nella sua parte centrale si apre sempre di più fino a diradarsi quasi nel nulla più psichedelico per poi tornare alla carica in una maniera di cui i primi santana sarebbero molto fieri. come ci riesce? con un groove di basso e batteria che ti apre in quattro, una ritmica funk che suona led zeppelin al punto giusto, che si trascina tutto, inarrestabile, semplicemente perfetta. sopra ci sono gli svolazzi della chitarra di rodriguez, rumorosa e melodica allo stesso tempo, e le stupende linee vocali di cedric che sfociano nel disperato ritornello.
'this apparatus must be unearthed' riporta sulla terra e mostra in germe molte sfaccettature che verranno esplorate sui dischi successivi, forse 'amputechture' più di tutti. poi ritorna la vena melodica e lo fa con una delle migliori ballate di tutta la discografia, l'indimenticabile 'televators' che più volte il gruppo ha tentato di bissare senza mai riuscirci (non tanto per qualità quanto per intenzione). la voce è rassegnata ma vicina, l'arrangiamento sospeso e dilatato e il tutto converge in un ritornello da lacrime prima di uno special che addirittura si lancia in un semplice canone vocale molto efficace.
il viaggio giunge al termine ma non lo vuole certo fare in modo accomodante: i nove minuti di 'take the veil cerpin taxt' si abbattono senza pietà sull'ascoltatore e sono forse i più profetici di tutto il disco: la struttura si mostra a fatica nell'inferno strumentale per poi collassare in un'eco di mellotron da cui comincia la sezione strumentale che non può non ricordare i king crimson per l'uso di incastri su tempi dispari e repentini cambi d'atmosfera prima di chiudere col ritorno della voce ed un finale tanto improvviso quanto liberatorio.

lo spettro di influenze mostrato qui è incredibile, si va dall'hardcore ai king crimson passando per ritmi latin, santana, funk e pop. 
il mix riesce a far emergere ogni minima sfumatura in maniera naturale e mai invasiva, il suono è fortemente tridimensionale grazie anche ai succitati soundscapes di ward che aggiungono uno spazio enorme alle canzoni; il mastering è intelligentissimo e riesce a spingere sull'impatto senza mai danneggiare le dinamiche. in poche parole, dovrete usare la manopola del volume, del resto L'HANNO INVENTATA APPOSTA.
nell'insieme risultavano essenziali le tastiere di isaiah ikey owens, soprattutto il suo hammond che faceva da collante universale in tantissimi momenti. e vogliamo dimenticarci dell'onnipresente tappeto di percussioni di lenny castro? il suo apporto è fondamentale per molti pezzi, su tutti 'drunkship of lanters', 'cicatriz esp' e 'take the veil', pezzi che possono tranquillamente essere ballati da tanto sono ritmicamente trascinanti. (quasi tutto il disco ha questa caratteristica del resto)
eppure la magia di 'de-loused' è la capacità di far suonare tutto questo unito, omogeneo e focalizzato in uno stile che è subito fresco ed originale. che è un po' la magia di tutti i mars volta ma qui, per i vari motivi elencati, gli è riuscita meglio che mai. uno dei 10 dischi rock fondamentali degli ultimi 15-20 anni per invenzione, arrangiamento, esecuzione e produzione, nonché opera mirabile per la sintesi perfetta tra cuore e cervello, un disco unico ed irripetibile che merita di essere ascoltato ed apprezzato da chiunque cerchi qualcosa di più del solito 4/4. 

domenica 14 giugno 2015

the mars volta, "octahedron"



'octahedron' arrivò come un fulmine a ciel sereno. dopo le sbrodolate infinite dei tre album precedenti, io di certo non mi aspettavo un disco che volesse tornare in parte indietro. 
tutto è ridimensionato, a partire dalla durata di "soli" 50 minuti e dall'apertura dell'album, affidata alla placida ballata 'since we've been wrong' che mette in chiaro molte cose: la melodia torna protagonista, sia nelle linee vocali che in quelle strumentali, la malinconia trascina tutte le canzoni e si restituisce al vuoto lo spazio che gli spetta, dopo averglielo brutalmente tolto in tempi non sospetti.

la grande differenza di 'octahedron' rispetto ai capitoli precedenti sta nel suo essere un disco di canzoni e non un blocco unico: ad eccezione di "copernicus" (che mostra germi di ciò che sarà 'noctourniquet') i pezzi sono retti da strofa-ritornello e si distinguono perfettamente gli uni dagli altri, grazie anche ad arrangiamenti più vari e strutturati. 
proprio in questo discorso si trova anche una delle pecche dell'album, ovvero quel thomas pridgen osannato per la sua tecnica e velocità che qui risulta però spesso o fuori luogo o evidentemente trattenuto. il suo ingresso in 'since we've been wrong' è palese in questo senso, con un suono decisamente troppo pompato e un fraseggio che non convince, 'octahedron' era un disco da theodore se non addirittura già da deantoni parks. (dave elitch non l'ho mai considerato un loro batterista, ha fatto solo un tour e non mi è mai piaciuto. guarda caso, l'unico batterista bianco di tutta la carriera)
cosa ne esce da questo miscuglio? ancora una volta, le canzoni. il groove aggressivo sulle melodie sospese di 'teflon' o 'desperate graves', l'unica concessione al vecchio 'funk-core' della buona 'cotopaxi' (non a livello però di una 'viscera eyes'), e, una spanna sopra a tutto, la rassegnata e triste psichedelia ambientale di 'with twilight as my guide', senza dubbio il capolavoro del disco con un lavoro melodico di cedric davvero incredibile che riporta la mente ai tempi di 'televators'.

ma allora 'octahedron' è un disco della madonna, direte. sì e no. nei momenti riusciti lo è, nulla da dire. altrove si trova una sensazione di incompiutezza, come se l'intero disco fosse una prova per poter passare oltre, "vediamo se sappiamo fare ancora quelle cose e poi ne facciamo altre". per fortuna quelle cose le sapevano ancora fare ma il tempo ha confermato che questo è un disco di passaggio, quando il focus si fa più preciso ne escono le figate totali, in altri momenti si gira un po' in tondo portando comunque a casa belle canzoni ('halo of nembutals', 'copernicus', che suona più come un esperimento che come una vera canzone, o 'luciforms', buona ma un po' vaga).
questo può essere un buon punto di partenza per conoscere a grandi linee il loro suono, tenendo a mente che non è un suono compiuto ed organico come nel primo o nell'ultimo disco; è però contenuto nella durata e molto molto melodico, non è assolutamente un album difficile da seguire.

impossibile però dimenticare ciò che è successo dopo: 'noctourniquet' porterà a compimento la nuova via dei mars volta e 'octahedron' resterà un episodio a sé, molto bello ma anche piuttosto effimero.

domenica 7 giugno 2015

the mars volta, "the bedlam in goliath"




se 'amputechture' era l'estremizzazione di alcune parti di 'frances', 'the bedlam in goliath' è la versione steroidizzata di tutto 'amputechture'.
non cambia di certo la mole di materiale: altri 76 minuti ancora più stipati di musica, con le parti noise ormai ridotte a una manciata di secondi in un paio di pezzi, non c'è un secondo di respiro, non c'è un solo momento in cui non stiano succedendo 79 cose tutte insieme.
buona parte della responsabilità di questo va di certo data al nuovo batteraio thomas pridgen, enfant prodige portabandiera di quelli che nel mondo tamburino son chiamati "gospel choppers". per capire ciò che vorrei dire, è giusto che vi dica prima due cose sui gospel choppers: nelle chiese afroamericane negli stati uniti è molto frequente trovare band che suonano durante la messa, questa non è una novità; un po' di anni fa ha iniziato a svilupparsi una scuola di batteristi gospel lungo tutti gli stati uniti, giovani che si ritrovavano a suonare e studiare insieme rubando fill e combinazioni dai loro idoli. il risultato è che spesso questi batteristi hanno un sacco di tecnica e un buon groove ma un pessimo gusto che li porta a suonare sempre troppo con fill intricati e velocissimi che c'entrano solitamente poco con la canzone (e sono normalmente dei semplici linear, frasi in cui non si suona mai più di un pezzo alla volta, a una velocità disumana).
pridgen è decisamente perfetto per rappresentare tutto ciò, la sua performance è esagerata lungo tutto i pezzi, non sta fermo un secondo ed è un continuo spostare accenti, girare le ritmiche, fare fill assurdi. chiaramente tutto è stato, come sempre, arrangiato in toto da rodriguez-lopez per cui è molto probabile che queste siano state le sue indicazioni. di certo se c'è un disco in cui questo modo di suonare può calzare a pennello è proprio 'bedlam': come dicevo è l'intero album ad essere estremo in tutto, i pezzi sono lunghi e tortuosi, le chitarre spalmate in ogni spazio vuoto sono decine e decine, quasi sparisce il basso di juan alderete che rimane a questo punto l'unico appiglio stabile in mezzo al casino più totale (vedi "goliath"). 
c'è però anche una voglia di ridare personalità ad ogni pezzo: mentre in 'amputechture' era tutto un flusso unico, qui le canzoni si distinguono ognuna per un'idea di base e questo è proprio ciò che salva la baracca.
"aberinkula" e "metatron" viaggiano sui medesimi binari ma hanno due ritornelli estremamente catchy che si fanno ricordare; "ilyena", probabilmente il pezzo migliore dell'album, si distingue per un groove ficcante e ancora melodie e ritornelli a fare da collante. notevole la sfuriata  di "wax simulacra" che in due minuti e mezzo rade tutto al suolo, preparando il terreno per il secondo capolavoro "goliath" che fa dello squilibrio il suo punto di forza e fa solcare le follie strumentali da cedric, ispirato a livelli molto alti. la critica che gli si può muovere in questo disco è lo spropositato uso di effettistica che fa: se da un lato dona dinamicità alle linee, dall'altro può stufare soprattutto nell'uso di octaver che creano l'effetto alvin superstar, in 'bedlam' ben più presente che negli altri dischi.
la psichedelia viene limitata a pochi e mirati momenti, principalmente in "cavalettas" e "soothsayer" mentre la breve "tourniquet man" è l'unica oasi di pace in mezzo al macello.
mi sento infine di citare "agadez" perché è l'ultimo pezzo dei mars volta che abbia ancora quegli influssi latin, per quanto ormai vaghi, che avevano graziato soprattutto i primi due album.

per concludere, il discorso non si discosta poi tanto da quello fatto per 'amputechture': ci si trova di fronte un monolito di suono di un'ora e un quarto che non dà tregua né respiro, ancora più estremo del suo predecessore anche nella produzione (troppo) sparata (vi consiglio infatti di procurarvi il vinile o dei file rippati dal vinile, il mastering è infinitamente migliore e lascia spazio agli strumenti, al contrario del cd che è quasi insostenibile); arrivare sani alla fine è un'impresa impegnativa per cui, ancora una volta, se dovete scoprirli non partite da qui, arrivateci quando già avete un'idea di quello che erano i mars volta e, con tempo e pazienza, troverete un altro gran disco.