sabato 8 settembre 2018

sting, '...nothing like the sun'


dopo la fine dei police, sting si è impegnato per imporsi come artista ‘serio’ e non solo come macchina da singoli, come successo ad esempio a phil collins. non che i successi da classifica gli siano mancati, già il primo disco sfoggiava ‘if you love somebody’ e ‘love is the seventh wave’ e almeno un pezzo di ‘nothing like the sun’ diventerà un evergreen mondiale, parlo ovviamente di ‘englishman in new york’.
nonostante questo, ‘nothing like the sun’ è un disco estremamente serio che però sa prendersi i suoi momenti di relax, oasi divertenti in mezzo a un'elevata densità, evitando abilmente di essere pesante.

la band che accompagna il biondo ha classe da vendere: manu katché alla batteria, kenny kirkland alle tastiere, branford marsalis al sax, lo stesso sting al basso e una cascata di ospiti: gil evans, eric clapton, andy summers, mark knopfler… non esattamente un gruppetto di ragazzini e questo si riflette nella complessità degli arrangiamenti e di alcune parti strumentali.
un disco serio, si diceva, dedicato da sting alla madre morta da poco ma anche alle mogli dei desaparecidos cileni (‘they dance alone’), alle influenze di gioventù (la cover di ‘little wing’), a uno zio (‘rock steady’) e perfino ai matti di tutto il mondo (‘sister moon’). serio nel titolo, una citazione di un sonetto di shakespeare che pare essere stata la risposta di sting alla domanda di un barbone, ‘how beautiful is the moon?’.

‘the lazarus heart’ è un inizio emblematico: l’arrangiamento è fitto e stratificato, la batteria è incastrata con percussioni varie, le chitarre in mano ad andy summers creano svolazzi effettistici suggestivi ed avvolgenti, sopra a questo un tema semplice ed orecchiabile che lascia il posto alla voce enfatica di sting. il feeling jazzato che pervade l’intero album qui si concretizza in un break durante l’assolo in cui l’intera band prende una modulazione metrica spettacolare che crea l’illusione di un cambio di tempo che in realtà non c’è.
‘be still my beating heart’ è uno dei brani migliori del disco, una successione di melodie morbide ed ispirate, dal tono cupo e un po’ disperato, spezzato solo da un’apertura in maggiore nello special centrale.
‘englishman in new york’ è il miracolo del disco, un brano che è diventato simbolo per sting (e per il 1987 tutto, grazie anche al bel video) e che vede le due parti musicali del disco (quella pop e quella jazz) mischiarsi su una ritmica in levare che tanto sa di reggae e di stewart copeland, prima di un solo di sax puramente jazz che si sfrangia in un break di batteria aggressivo ed inaspettato.
da citare anche le due ballate, ‘they dance alone’ e ‘fragile’, entrambe molto sentite e profonde (la seconda ha aperto il suo concerto la sera dell’11 settembre 2001), la prima forse un po’ stucchevole ma niente di grave. del resto non stiamo parlando del disco perfetto, ci sono anche brani minori, belli ma non certo imprescindibili: ‘we’ll be together’ è una hit un po’ sempliciotta ma divertente, ‘rock steady’ passa un po’ innocua e ‘straight to my heart’, con un bell’arrangiamento di percussioni fitte in 7/8 che la rendono interessante anche se non memorabile.
strepitosa è invece la cover di ‘little wing’ arrangiata da gil evans, una versione molto personale che aggiunge epicità ad uno dei classici tra i classici del rock e si inserisce perfettamente nella tracklist, subito dopo la perla ‘sister moon’, una ballata jazz che prosegue la linea di ‘moon over bourbon street’ dal disco precedente ma con ancora più classe e una mano compositiva nettamente più esperta e convinta, che serve su un piatto d’argento la possibilità a marsalis di esporre il suo lato notturno e languido.

‘sooner or later we learn to throw the past away’, canta sting in ‘history will teach us nothing’; con ‘nothing like the sun’ sembra veramente che il biondo abbia voluto definitivamente chiudere i conti con il suo passato nei police ma al contempo abbia riabbracciato in pieno il suo amore adolescenziale per il jazz, ora in maniera matura e competente, perdendo quel velo naif che pervadeva ‘the dream of the blue turtles’ e (quasi) tutti i riferimenti alla vecchia band. se questo sia un bene o un male decidetelo voi.
un disco serio ed impegnato che però non si nega momenti di svago e risulta quindi sempre gradevole ed accattivante nonostante l’elevata ricerca sonora che gli sta alla base. dopo questo disco la parte jazz andrà sempre più indebolendosi, lasciando posto al talento pop da ritornello in album come il pur bello ‘ten summoner’s tales’, prima di tornare con un ultimo colpo di coda nello spendido live (e tour) ‘all this time’.