martedì 12 luglio 2016

schammasch, "triangle"


gli schammasch sono un quartetto svizzero che con ‘triangle’ è giunto al terzo disco. molto onestamente vi dico che manco li avevo mai sentiti nominare fino a qualche giorno fa per cui non ho molto idea di cosa sia successo prima di questo disco. per quel poco che ho sentito i quattro orologiai prima si dedicavano a un black più “ortodosso” con i classici momenti doom e cliché vari.
‘triangle’ invece è un disco triplo che però per la durata poteva essere anche doppio: il totale è infatti di poco più di 100 minuti, i tre dischi durano circa 34 minuti l’uno. perché allora questa scelta bizzarra? perché i tre dischi hanno nette differenze tra loro, pur rimandando ad un disegno generale coeso e ben organizzato.
è un concept album su… la morte. arrivano comunque dal black metal, che vi aspettate? i tre capitoli identificano tre fasi del trapasso: ‘the process of dying’ (non credo ci sia bisogno che ve lo spieghi), ‘metaflesh’ (il decadere della carne e il sorgere dello spirito come essere ultimo) e ‘the supernal clear light of the void’ (il buio, il vuoto, il nulla.).
musicalmente mi sono trovato ad ascoltare uno dei pochissimi dischi metal entusiasmanti degli ultimi anni. non che ci siano rivoluzioni o grossi scossoni al genere ma gli schammasch conoscono molto bene la loro materia e se la suonano e gestiscono in maniera egregia, passando da un primo disco più canonico, seppur decisamente ispirato, ad un secondo che mette in tavola decise sterzate di doom cosmico, chitarre liquide e psichedeliche, passaggi pseudo-folk e molti altri colori da scoprire fra le trame dei pezzi, pur restando su suoni polverosi e antichi tipici tanto dell’estetica black quanto di quella doom.
il terzo disco riesce a sorprendere ancora andando più in là: per raccontare il grande vuoto gli amici cioccolatai del black imbastiscono 34 minuti di dark-ambient-drone-folk che sta tra i death in june, i dead can dance e gli ulver (quali ulver? decidete voi). sebbene anche questa non sia certo una trovata geniale, contribuisce alla costruzione del disco in maniera funzionale e dinamica e porta a compimento quel disegno generale di cui si parlava prima: un inizio legato alla furia black per descrivere la morte, una parte centrale che unisce violenza e oasi meditative in cui lo spirito si stacca dal corpo e un finale dilatato e aperto all’infinito per mostrare quello spirito che vaga nel vuoto.
volendo fare un giochino un po’ scemo potremmo vedere i tre dischi come l’equivalente delle tre fasi black metal degli ulver: il primo disco si può affiancare a ‘nattens madrigal’, il secondo a ‘bergtatt' ed il terzo a ‘kveldssanger’, sebbene contenga molte più tracce degli ulver di 'lyckantropen themes’ o ‘shadows of the sun’. ci si ritrovano anche evidenti tracce di quel black sperimentale che da anni fa sfornare grandi dischi ai negura bunget, sicuramente i migliori di questa nuova ondata, e che in passato ci ha donato i grandi album dei taake.

quello che posso assicurarvi è che questo è senza dubbio il miglior disco metal che abbia sentito quest’anno e probabilmente anche lo scorso (quasi a pari mi viene in mente solo 'm' di myrkur l'anno scorso o il buono (ma non a questi livelli) ultimo degli oranssi pazuzu). pur non inventandosi niente gli schammasch realizzano un’opera compiuta, compatta, varia e dinamica con grande intelligenza e ottima padronanza dei mezzi. attendendo che li annuncino per il roadburn 2017, lascerò che 'triangle' invada la mia estate.

martedì 24 maggio 2016

katatonia, "the fall of hearts"



la carriera dei katatonia è costellata di dischi stupendi, fra i quali trovano posto almeno 3 capolavori che sono l’apice delle varie fasi: ‘brave murder day’, ‘last fair deal gone down’ e ‘night is the new day’. in mezzo a questi, di dischi brutti non ce n’è mai stati; si può parlare dell’ingenuità di ‘dance of december souls’ o ‘discouraged ones’ ma non si dimentichi che erano dischi in cui gli svedesi o stavano iniziando (il primo) o stavano provando cose nuove (il secondo).
nel 2016 assistiamo all’uscita del primo disco pacco della carriera dei katatonia. bruttino, prolisso, già sentito, poco a fuoco e piuttosto moscio e inutile.

la tendenza generale dell’album è la seguente: le parti metal sono ancora più metal, le parti non metal sono semiacustiche o elettroniche, queste sono le due dinamiche impiegate più o meno per l’intero album. il problema si aggrava quando le parti metal vogliono spingere sulla parte “prog”, più o meno alla maniera dei vecchi opeth, peccato che il risultato sia solo che queste parti suonano vecchie, vecchie, vecchie, stantie, già sentite, già esplorate. gli arrangiamenti non si fanno notare per particolare dinamica o cura, piuttosto arriva ad innervosire il continuo uso di sestine o terzine come unica variazione: si infilano in quasi tutti i riff distorti e sono l’unica modulazione ritmica che succede nei brani (e succede in metà dei brani). 
 ma è anche vero che questi paciosi nordici non hanno mai inventato dal nulla, la loro forza è la loro poetica personale con cui hanno sempre ammaliato l’ascoltatore. il suono che culla c’è, purtroppo questa volta mancano dei veri agganci melodici che si facciano ricordare, mancano ritornelli ficcanti, mancano idee precise alla base dei pezzi e, ancora peggio, manca una vera identità delle canzoni che si susseguono senza cadute eccessive ma anche senza nessuno sbalzo.
la formazione è cambiata ancora, ora nystrom si occupa di tutte le chitarre e alla batteria è arrivato daniel moilanen, ahimè altra nota dolente: freddo, senza mordente, un suono scarso anzichenò e assolutamente privo di quella ritmicità convulsiva e propulsiva che aveva invece liljekvist, arma “segreta” della band per molti anni.
non ho purtroppo da segnalarvi canzoni che spicchino nel bene, ne ho invece (purtroppo, di nuovo) in negativo: ‘takeover’ è la peggior apertura di tutta la discografia (ed è uno dei pezzi migliori del disco), ‘decima’ frantuma i maroni come faceva “damnation”, ‘serac’ si trascina per sette minuti e mezzo di pseudo-prog insipido, ‘passer’ è una smetallata che puzza di 2000-2005. 

detto tutto questo, in ogni caso darò ancora possibilità al disco per cui sai mai, non sorprendetevi se vedrete comparire una seconda recensione che smentisce tutto questo. per ora bocciati per la prima volta in 23 anni.

domenica 1 maggio 2016

r.i.p. prince rogers nelson



non è sempre facile separare l’artista dall’essere umano che ci sta dietro. se devo sforzarmi di trovare un lato positivo nella morte di uno dei 2 o 3 più grandi artisti degli ultimi 40 anni questo sarebbe proprio il fatto che ora, non essendoci più l’umano, è rimasto solamente l’artista. siamo liberi dal dover far finta di nulla davanti a capricci e cazzate. il prezzo da pagare è però di quelli davvero pesanti: non poter mai più vedere prince dal vivo è una cosa orribile.
quando dico “uno dei più grandi” non lo dico a caso. michael jackson aveva un intuito melodico pazzesco e una capacità di arrangiamento incredibile ma poi aveva bisogno di musicisti che gli suonassero i dischi, prince no. lo stesso dicasi per il genio rivoluzionario di ray charles o di james brown, senza il quale prince di certo non avrebbe potuto fare ciò che ha fatto. l’unico a cui lo si può davvero avvicinare è stevie wonder, col quale aveva più punti in comune, dall’essere polistrumentista ad aver fatto suo uno stile che fondeva mille generi diversi in un solo pentolone. su questo aspetto però prince si è spinto ancora più in là, la sua musica ha veramente toccato ogni confine, sempre con una libertà e una naturalezza che dubito verranno mai eguagliati.
la stessa naturalezza con cui si è sempre preso gioco di tutti, a partire dai giornalisti, categoria da lui non proprio ben vista (vedasi la geniale trollata del simbolo impronunciabile, in bilico tra capriccio da primadonna e dito medio al mondo). il risultato è che si sa poco e un cazzo della vita di prince e c’è almeno una chiave di lettura che potrebbe non dico giustificare ma almeno spiegare molte delle sue scelte (infanzia difficile, isolazionismo, fama da giovane e conseguente sfruttamento da parte del business, non escludo che diventare testimone di geova per un periodo possa avergli salvato la vita anni fa).
poi però mettiamo su sign 'o’ the times e nulla di tutto questo importa più.

usiamo troppo e a sproposito la parola “genio”, senza pensare bene a ciò che vuol dire e ciò che comporta. l’artista che se n’è andato, chiamiamolo di nuovo prince o come ci pare, ormai poco importa, era un Genio e la musica tutta dovrà essergli riconoscente per sempre, tanto quanto a ray charles, miles davis o beethoven.

domenica 3 aprile 2016

O(+>, “the gold experience”



venne poi il giorno in cui il nano sbroccò del tutto. precisamente nel 1993, quando prince rogers nelson, dopo aver dato alle stampe un’accozzaglia di scarti rielaborati chiamata ‘come’ ed accreditata a ‘prince 1958-1993’, decise che era ora di cambiare. non solo la casa discografica, la warner che a suo dire tarpava la sua creatività impedendogli di pubblicare 3 o 4 dischi all’anno (se erano tutti sulla scia di ‘come’ non è difficile immaginare il perché…) ma anche il suo stesso nome, in 
come si pronuncia questa cosa? non si pronuncia. al limite mmfnnnn o gghhhrrgngn, oppure, come han fatto tanti, facendo incazzare il nano, lo si chiama tafkap, ovvero the artist formerly known as prince. questo poi, quando il tappo si è richiamato prince, ha fatto ovviamente sì che il suo nome potesse essere the artist formerly known as the artist formerly known as prince. tafkatafkap, manco una filastrocca del gabon.

ma lasciamo perdere tutta questa storia, chiamatelo come vi pare, il vero problema di princino il breve in questo periodo era il suo evidente calo di ispirazione. per tutta la prima metà dei ’90, ovvero durante il periodo new power generation, mmfnnnn si era preso bene con il rap e le gang e l’hip hop e gangsta shit, che del resto stava spopolando anche nel resto del mondo. purtroppo però sui suoi pezzi normalmente ci sta bene come la melma sulle lasagne per cui in buona parte ne avremmo fatto volentieri a meno (quasi l’intero disco ‘diamonds and pearls’ si può prendere e buttare via senza pensarci troppo). in ‘the gold experience’ la parola d’ordine è ecletticità, questo è il modo buono di dirla, se no si può dire che c’è un nucleo coeso con attorno roba un po’ a cazzo di cane, poco cambia. di sicuro i pezzi che costituiscono il cuore dell’album sono tra i più ispirati di tutto il decennio, dalla botta di adrenalina (o endorfine) di ‘endorphinmachine’ al funk zozzissimo di ‘billy jack bitch’ (che dà bellamente della puttana ad una giornalista gossip di minneapolis che odiava il nostro musico bonsai), l’ammiccante (dai, davvero?) ‘319’ e l’incredibile porno-ballata ‘shhh’, tanto ridicola nel testo quanto retta da una prestazione inarrivabile del gruppo, con quella macchina da guerra di michael bland alla batteria a trascinare il pezzo e tafkatafkap perso in un’interpretazione da pelle d’oca, sia alla voce che alla chitarra. ‘dolphin’ è un buon pop-rock con chiare tracce hendrixiane e ‘p control’ (p sta per pussy. sorpresi?) è probabilmente la miglior opener di tutti i suoi (del nano) dischi dei ’90. ottimo anche l'apporto della sezione fiati, i cui interventi riescono sempre a rivitalizzare le canzoni e ad accentuare dinamiche e groove.

in mezzo poi c’è la sabbietta a riempire gli spazi. a parte i fastidiosi interventi dell’npg operator che ci tiene a darci importantissime comunicazioni di servizio come ‘prince està muerto’ o “that was just a sample of the many experiences the dawn has to offer. to continue, please press come”, roba forte, ci sono una serie di canzoni che spaziano dalla rotolante ‘we march’ alla quasi identica ‘now’, passando per la gradevole ballata acustica ‘shy’ e arrivando alla conclusiva ‘gold’, macchiata un po’ dall’eccessivo entusiasmo che frenava anche ‘graffiti bridge’ qualche anno prima. non siamo al livello dei brani migliori ma non c’è nemmeno nulla che possa definirsi brutto, il brodo viene allungato un po’ troppo, tutto qui. resta sorprendentemente solida la capacità di utilizzare linguaggi e fraseggi dei generi più disparati e renderli significativi in un contesto in cui vale tutto, o quasi. è lo stesso concetto del miracolo di 'purple rain' o 'sign o the times' ma trasportato di dieci anni.

alla fine dei conti, guardando i dischi che il coboldo minneapolitano ci ha dato negli anni 90 è abbastanza facile dire che questo fosse il migliore. oltre all’essere il proverbiale orbo nel paese dei ciechi, non è nemmeno del tutto orbo e soprattutto l’occhio da cui ci vede funziona proprio bene. certo, poi vede tutto da quell’altezza ma questo è un altro discorso.

martedì 8 marzo 2016

motorpsycho, 'here be monsters'



il pianeta motorpsycho di stare fermo non ne ha mai voluto sapere. a ben vedere, il periodo in cui il trio si è mosso di meno è stato proprio quello appena passato, inaugurato da ‘little lucid moments’ fino a ‘behind the sun’ del 2014, in cui l’aspetto più suonato del gruppo è stato esplorato in ogni modo possibile. ‘here be monsters’ arriva e non si capisce bene se sia la chiusura di quel capitolo o l’inizio di uno nuovo, di sicuro è qualcosa di diverso, anche se non completamente. 
quello che rimane fisso è proprio quella fisicità data dagli strumenti live, ripresi in maniera impeccabile in un mix (ad opera di thomas henriksen che si occupa anche di tutte le tastiere)
apparentemente semplice che risulta veramente evoluzione dei suoni dei primi ’70, sostenuto da un mastering eccellente che ne fa risaltare ogni sfumatura dinamica e di colore (consigliato il pacchetto in vendita vinile+cd a 15 euri QUI). 

quello che però fa di nuovo la differenza, finalmente, sono le canzoni. infatti la critica che si può muovere al trio negli ultimi anni è che abbiano sì sfruttato in ogni modo il loro suono ma questo a volte è avvenuto a scapito della scrittura e della fruibilità dei pezzi. anche nei capitoli migliori infatti (‘still life with eggplant' su tutti ma anche ‘the death defying unicorn’ o ‘heavy metal fruit’) ogni tanto si perdeva il filo delle canzoni, dilungate in infinite jam che confondevano un po’ il disegno generale. nel 2016 questo non succede, le canzoni di ‘monsters’ sono perfettamente a fuoco ed ognuna di loro ha un carattere individuale difficilmente confondibile con quello delle altre, ognuna è una storia a sé ma messe tutte in fila restituiscono un disegno preciso e definito, pur nei suoi contorni sfocati. da ricordare che i brani sono stati composti insieme a ståle storløkken, quindi concepiti con già le tastiere, ma registrati poi con henriksen allo strumento per altri impegni di storløkken.
perla assoluta del disco è ‘running with scissors’, uno strumentale trainato da un tema di flauto traverso, contrappuntato dal basso ed armonizzato dalla chitarra in maniera sublime, mentre la batteria morbida del sempre incredibile kapstad marca i continui ma sottili cambi di tempo del brano. un pezzo magistrale che ricorda le calde melodie west coast già recuperate anni or sono nel bellissimo ‘let them eat cake’, sonorità che per altro si fanno sentire decise anche nella pinkfloydiana ‘lacuna sunrise’, un lento crescendo che ammalia nella sua bellezza cristallina.
grandiosa la gestione di un meccanico 7/8 in ‘i.m.s.’, il groove di kapstad con le sue infinite variazioni traina tutta la canzone più in linea col recente passato del gruppo per poi buttarsi in pieno nei tempi andati con ’spin, spin, spin’, cover del brano d’apertura del secondo disco degli americani h.p. lovecraft del ’68, ben riuscita e ottimo defaticamento prima del gran finale che già sta facendo sbavare i progster di mezzo mondo, ovvero l’epica ‘big black dog’. 

i suoi quasi 20 minuti meritano un paio di righe a parte: negli ultimi 20 anni troppo spesso è stata vera l’equazione prog+suite=merda; i dream theater sono maestri in questo ma in generale capita sempre più di rado di sentire un brano più lungo di 10 minuti che riesca a mantenere l’interesse dell’ascoltatore, basti pensare alla valangata di ciarpame datoci in pasto dai flower kings e compagnia sveziana. ‘big black dog’ riesce ad evolversi lentamente, aggiungendo poco alla volta fino a momenti di pienezza che quasi stordiscono me senza mai dimenticarsi la melodia, tanto che la delicata linea dell’introduzione viene recuperata nel mezzo del casino fatta dal mellotron e ricalcata dalla voce, mentre tutto il resto si è spostato di tonalità. espedienti che mostrano le capacità musicali ormai indiscutibili (da un bel pezzo…) dei tre norvegesi e che permettono al brano di estendersi per tutta la sua durata senza mai calare di intensità.

che altro dire, per mio gusto siamo di fronte al miglior disco dei motorpsycho da ‘trust us’ a oggi, sicuramente il più compatto, focalizzato, meglio scritto e più riuscito, senza filler né momenti ‘generici’, prodotto in maniera superba (dal solo bent sæther) ed esaltato perfettamente da mix e mastering magistrali. non ho assolutamente nulla di cui lamentarmi, sono quasi deluso.

venerdì 5 febbraio 2016

corrections house, "know how to carry a whip"


“last city zero” nel 2013 era stata una bella sorpresa, aveva portato alla luce un progetto marcio e sbagliato, corredato da uno spettacolo live disturbante e sporco come solo mike williams sa essere. unico difetto da indicare, alla fine i pezzi del disco potevano sempre essere ricondotti chiaramente ad uno degli altisonanti componenti della band (per la cronaca, mike williams (eyehategod) alla voce, scott kelly (neurosis) alle chitarre, bruce lamont (yakuza) al sax e sanford parker, produttore, ingegnere del suono e responsabile della parte elettronica).
con “know how to carry a whip” i corrections house hanno risolto quel problema e ciò è molto bello. quello che non ci si aspettava è che il livello di coesione del gruppo potesse, in così breve tempo, giungere a tale stato di maturazione. come se non bastasse i quattro lercioni sonici hanno scritto una manciata di canzoni a loro modo perfette in cui ogni componente è a suo (dis)agio e tutto converge verso un punto focale: lo schifo. lo schifo della società, dell’essere umano, della vita, lo schifo dello schifo e di tutto quello che fa schifo. è un disco che vomita a getto e in continuazione, non dà tregua e non ne vuole dare: i beat elettronici sono marziali, asfissianti e distorti, la chitarra alterna feedback lancinanti e riffazzi che pare che ti saltino sulla faccia e intanto si incastra col sax che a volte sembra davvero un sax, se no è solo un altro urlo agghiacciante. solo un altro, perché quello là davanti, comunque vada, urla più di tutti. williams traina tutti nell’abisso coi suoi declami apocalittici dalla fogna più profonda e ogni tanto lascia il posto a qualcuno degli altri per mettere lì una melodia dove non te lo aspetti, quasi speri che le cose possano andare meno peggio per un attimo… e poi invece BAMBAMBAMBAM riprendono sulle ginocchia.
è un disco che dà fastidio e ci tiene a farsi sentire, non riuscirete a fare finta di niente, è come la macchina che passa sotto al ponte quando tu cammini e ti schizza la pozzanghera di pioggia e piscio addosso. puoi anche fare finta di niente ma intanto fai schifo pure tu.

avete presente quel disco che avremmo voluto da trent reznor dopo "the fragile”? potremmo non essere lontani. con un’unica differenza, incredibile a dirsi: qui tutto fa ancora più schifo.

mercoledì 27 gennaio 2016

ulver, 'atgclvlsscap'

                         

c’è un’idea che mi è nata anni fa, precisamente poco dopo la pubblicazione di "shadows of the sun”, uno dei vertici assoluti della carriera degli ulver. quest’idea è che il vero punto di svolta nella storia di rygg e amici vari sia stata la loro esplorazione del silenzio fatta nel 2001 con i due ep “silence teaches you how to sing” e “silencing the singing”, poi raccolti nel disco “teachings in silence”. è stato in quel momento che gli ulver hanno veramente rotto con un passato che andava a creare climax emotivi riempiendo lo spazio; picco di questa tendenza è stato “the marriage of heaven and hell”, l’unico episodio davvero non riuscito nella loro discografia, ma anche “perdition city” ogni tanto si lasciava andare ad eccessi, nonostante l’evoluzione della band andasse già chiaramente in un altro senso. con quegli ep gli ulver hanno colto il vero senso del silenzio e da allora sono stati in grado  di usarlo a loro piacimento, evitandolo in “blood inside” e giocandoci per creare i profondi e spettacolari chiaroscuri di “shadows of the sun” (senza dimenticare i 5 minuti di puro silenzio messi in coda al disco non certo per errore).
“messe” e “terrestrials” hanno messo in campo gli ulver alla loro massima padronanza dei mezzi musicali, col gruppo che gioca a scomparire quando vuole, lasciando il campo all’orchestra nel primo caso e ai sunn O))) nel secondo. curiosità proprio riguardante “terrestrials”, visti gli ultimi parti dei due terroristi americani da “monoliths and dimensions” a oggi, inclusi balletti e varie follie artistoidi, era lecito aspettarsi ben di più di uno sciapo e molle “kannon”, loro non hanno imparato dagli ulver ma gli ulver hanno imparato da loro.

giungiamo finalmente al nuovo arrivato, “atgclvlsscap”. dietro al criptico titolo si nasconde l’acronimo dei 12 segni zodiacali, 12 come il numero di date in giro per l’europa da cui sono tratte le basi per questo progetto. durante quel mini-tour (passato anche al bloom di mezzago per una serata fantastica) il gruppo partiva da piccole idee, loop o frammenti di vecchie canzoni e su questi improvvisava. (excursus: teniamo conto che parliamo di un gruppo che ha fatto il suo primo live 15 anni e 7 album dopo il suo esordio sul mercato e a queste date ha fatto seguire un concerto all’opera di oslo, uno in formazione alterata al roadburn (esibendosi solo in cover psichedeliche anni ’60), un tour normale e uno con un’orchestra, poi si son messi ad improvvisare sul palco. ci sono band che suonano dal vivo da 40 anni e non hanno fatto nemmeno la metà di tutto ciò.)
queste improvvisazioni sono poi state selezionate, editate e rielaborate, mischiando materiale live con altro suonato in studio e dando forma al doppio disco. 
"forma” direi che è una parola chiave per capire cosa succede qui: il tessuto sonoro sotteso all’intero disco è astratto e larghissimo, come una tela con solo qualche tratto e da qui gli ulver impostano un’immagine che è fatta proprio di forme che si consolidano per poi sparire nel nulla, creando ora climax impetuosi, ora delicati soundscapes che cullano più che incutere timore come nel recente passato.
nella costruzione dei climax sta un’altra sfumatura del genio di rygg e compagni. il gruppo infatti riesce nella difficilissima impresa di lambire territori “post-“ senza scadere mai nel banale, misurando gli strati sonori e creando crescendo intensissimi sottraendo invece che aggiungendo materiale (e qui l'esperienza di “teachings in silence” è evidente). il coraggio di questa scelta è rimarcato dalla quasi totale assenza (sigh) della splendida voce di rygg stesso, relegata a due soli pezzi su dodici (l’intensa rielaborazione di 'nowhere/catastrophe’ e la seguente, toccante ‘ecclesiastes’). l’interazione tra gli strumenti viaggia su binari simili, quando la trama ritmica inizia a farsi fitta troviamo quasi sempre un diradarsi dello sfondo e viceversa; trama ritmica per altro resa ancora più ricca dal sostegno che le percussioni spesso danno alla batteria.

i suoni sono un altro aspetto notevole del lavoro: senza sacrificare l'aspetto live (necessario anche per comprendere lo svolgersi delle canzoni) la produzione in studio riesce a non risultare mai finta o distaccata, la dinamica è perfetta e ne esce una pasta sonora generale che dona carattere al disco senza sopraffarlo (consigliata ovviamente la versione in vinile, ancora più dinamica ed avvolgente).
non siamo di fronte al miglior disco degli ulver ma sicuramente li troviamo ad uno dei loro picchi creativi, in una veste ad oggi ancora inedita su disco, quella di live band, in più su un terreno pericoloso come quello dell’improvvisazione/composizione estemporanea.

il tempo passa ma gli ulver di ripetersi non ne vogliono sapere e con “atgclvlsscap” fanno un altro passo avanti a testa alta, uscendo ancora una volta vincitori, sebbene ormai unici gareggianti poiché gli altri sono tutti rimasti indietro.