sabato 24 marzo 2012

the mars volta, "noctourniquet"




è facile amare i mars volta, così come è facile odiarli. da un certo punto di vista sono molto simili ai tool: scatenano fanatismo e fan insopportabili ed hanno un sound ed un'immagine che o piace o non piace, non ci son cazzi.
a me, da quando li ho scoperti, son sempre piaciuti. a volte più, a volte meno ma li ho sempre difesi come uno dei pochissimi gruppi rock di oggi che veramente ha fantasia ed una sua precisa identità, oltre a una serie di sezioni ritmiche tra le più allucinanti sentite in tempi (più o meno) recenti (l'accoppiata john theodore-flea su de-loused in the comatorium è da iscrivere negli annali del rock).

i loro difetti li hanno sempre avuti: ogni tanto si perdono, non sempre hanno azzeccato un disco al 100% (a mio parere bedlam in goliath non vale quanto gli altri sebbene abbia dei momenti brillanti) e soprattutto cedric dal vivo fatica (molto) a cantare come sui dischi ma è anche vero che compensa con un'ottima presenza scenica e che sui dischi la sua voce è caratteristica imprescindibile del sound del gruppo.

tutto questo sbrodolamento di parole per arrivare poi al punto: noctourniquet è un capolavoro. mi sono chiesto a lungo se effettivamente valesse la parola (traduci: un sacco di pippe mentali) e alla fine, per una serie di motivi, nel mio stronzissimo e personale parere non ho dubbi.
questi motivi vanno su tutti i livelli: il suono è frutto di un mix particolarissimo e studiato nei minimi particolari, grazie anche all'uso pesante di elettronica per la manipolazione del suono con effetti in continuo movimento, riverberi che crescono e scemano, delay che impazziscono ed un continuo ondeggiare delle dinamiche che rende il disco vario e mai statico. gli arrangiamenti sono l'aspetto più psichedelico del disco, costruiti su accumuli di strati che vanno da lande spaziali desolate a muri di suono accecanti fatti di incroci di chitarre e synth sfavillanti (il termine tecnico è piruliruliru) che lasciano letteralmente senza fiato.
poi, il nuovo batterista deantoni parks, già con la omar rodriguez-lopez band, oltre ad avere un suono pazzesco, è completamente scemo. su questo disco ho sentito fare alcune delle cose più perverse che un batterista rock possa pensare, oltre a delle bellissime idee negli arrangiamenti.

questo per il versante tecnico. andando oltre, se già conoscete il gruppo rimarrete probabilmente piuttosto spiazzati (a me la prima volta ha sudato il cervello). questo perché, sebbene ora sia evidente come octahedron fosse un album di transizione, il disco è parecchio diverso da ciò a cui siete abituati a sentire da loro. i momenti psycho-heavy-funk sono molto dosati e non costituiscono quasi mai l'ossatura dei pezzi, a differenza dei primi 4 album. ci si trova invece davanti ad una folata psichedelica impazzita, sfavillante di mille colori e perfettamente coerente con l'orizzonte ubriaco della copertina. come se foste nella fabbrica di cioccolato con gene wilder (decisamente non con tim burton) fatti di acidi: colori, lo spazio e ovunque vi giriate non potete smettere di meravigliarvi.
tutti questi aspetti si incrociano poi per formare le effettive canzoni che compongono noctourniquet. dall'aciderrrrrimo ritornello di the whip hand passando per le melodie di aegis, gli sberluccichii di dyslexicon, il groove zoppo del beefheartiano (e splendido) singolo the malkin jewel e quello ammiccante della title-track o l'energia di molochwalker e zed and two naughts... e non vi ho detto le mie preferite! l'unico aggettivo che mi viene per empty vessels penso sia "celestiale", adagiata su una melodia morbida prima di aprirsi nel ritornello lacerato da una chitarra lercissima. e poi in absentia. per in absentia le parole invece, mi spiace, non le ho trovate. è il trionfo assoluto della psichedelia malinconica che solca l'intero disco, tra i suoi abissi insondabili e la disperata esplosione finale. indescrivibile. e quelle che non ho citato non è che son brutte, se no non parlerei di capolavoro. sono tutti tasselli assolutamente necessari per completare l'immagine finale.

quest'immagine ognuno la veda a modo suo. quello che io vedo è una delle ormai rare prove di sincera e geniuna vitalità del rock moderno. un progetto che non ha paura di evolversi e di fare quello che vuole, tramite una visione d'insieme invidiabile e capacità di scrittura ben sopra la media odierna. una creatività esplosa in pieno (di nuovo) in quello che è uno dei dischi che ho trovato più entusiasmanti negli ultimi anni e che sono sicuro ricorderò molto molto a lungo. se tutto ciò non fa un capolavoro, allora non ho capito veramente un cazzo della vita.
io ve l'ho detto, poi fate voi.

mercoledì 7 marzo 2012

litfiba, grande nazione tour, forum di assago, 06-03-12



potrei lamentarmi di un sacco di cose. potrei lamentarmi del pubblico ignorante e maleducato che si presenta ai concerti solo per ubriacarsi come delle merde e dare fastidio agli altri. potrei lamentarmi dell'esclusione del capolavoro litfiba 3 dalla scaletta (a parte l'ovvia tex) o della sola ritmo #2 di mondi sommersi. potrei, ma non lo farò. perché? perché ho visto i litfiba dopo 14 fottuti anni che aspettavo.

partono subito con una pessima idea, quella di aprire il concerto con l'inutile singolo squalo. il pubblico si muove e canta ma è quando l'urlo "o' terremoooooooto" introduce dimmi il nome che inizia veramente il concerto. il gruppo è in forma strepitosa e questo si sentirà per tutte le due ore di durata del concerto, che si muoverà per tutto il tempo fra classici ed estratti da grande nazione.
pezzi come la title-track, fiesta tosta e soprattutto la mia valigia funzionano alla grande dal vivo e il pubblico risponde bene, anche se è sempre coi pezzi vecchi che si scatena il delirio.
dalla splendida prima guardia a tex passando per fata morgana e proibito fino alle obbligatorie cangaceiro, lacio drom, el diablo e gioconda è tutto un flusso unico di energia che si sprigiona dal palco, con in testa pelù in forma smagliante.

toccante come sempre la bellissima lulù e marlene, affiancata nel suo scavare nel passato da la preda e cane, uniche vere sorprese di un concerto che non stupisce ma funziona alla perfezione in ogni suo meccanismo.
si può discutere sulla genuinità di tutto questo come si può discutere dei, per la maggiorparte, pessimi seppur brevi discorsi di pelù tra un pezzo e l'altro. quello che però arrivava dal palco era energia vera che, a prescindere da cosa fosse a generarla, ha fatto muovere il culo a 10000 persone, e scusate se è poco.

tecnicamente nulla da eccepire, ghigo col suo suono stellare suona sporco e rock per tutto il tempo, la sezione ritmica non perde un colpo ed è precisa e potente, tastierista e chitarrista ritmico restano a fare il loro dignitoso lavoro (anche ai cori) che rinforza il suono del gruppo. nessun virtuosismo, non servono; solo semplice e puro rock.

e poi piero. piero pelù è un dio del palco. il primo riferimento che viene in mente è dave gahan: quando salgono sul palco catalizzano completamente l'attenzione del pubblico, non c'è scampo, gli occhi sono tutti per loro. pelù corre, salta, fa il pirla e canta in maniera strepitosa per tutto il concerto fino a quando, sulle ultime note di ritmo #2, a petto nudo prende la rincorsa da fondo palco e spicca un salto dal bordo gettandosi letteralmente sui fan a fare stage diving. ha compiuto 50 anni un mese fa.
genuinità o meno, concerti così non si vedono tutti i giorni, specialmente di gruppi provenienti da questa discarica di paese.

che sia per amore, che sia per denaro, STICAZZI. bentornati.


scaletta:

squalo
dimmi il nome
grande nazione
prima guardia
barcollo
fiesta tosta
la preda
luna dark
la mia valigia
brado
tex
anarcoide
lulù e marlene
gioconda
cane
cangaceiro

elettrica
fata morgana
sole nero
lacio drom

proibito
el diablo
spirito
ritmo 2#

mercoledì 29 febbraio 2012

napalm death, "utilitarian"



avevo 15 anni, non ero pronto. certo, piacevano i metallica, i pantera ed altro, ma per i napalm death nessuno mi aveva preparato. così, dopo che un amico mi aveva fatto sentire un paio di canzoni, consigliato da giornali vari, comprai Scum per 20000 lire alla virgin in piazza duomo (quanto culto in una frase sola). da allora il concetto di "musica estrema" non è mai più stato lo stesso per me.

oggi sono passati esattamente 25 anni da quando Scum è uscito e i napalm death sono ancora qui. dopo 30 anni di carriera, vari cambi di formazione e la tragica scomparsa di jesse pintado loro sono ancora qui a terrorizzare tutti i sogni perbenisti della parte più ipocrita della nostra società.
fin qui nulla di nuovo vien da dire. in effetti non c'è poi così tanto di nuovo in questo utilitarian, ciò che però lascia stupiti è la qualità media dei pezzi, l'evidente ispirazione che ha fatto sì che i 4 inglesi si risollevassero dopo un paio di prove in studio buone ma non certo eccezionali.

la foga hardcore guida più o meno tutti i pezzi, messa al servizio del classico grind di casa napalm, donando dinamicità, groove e godibilità a questo monolite velenoso. esempi perfetti (ma ha davvero senso citarli?) sono la feroce errors in the signal, protection racket o la bestiale doppietta nom de guerre e opposites repellent, le quali messe insieme non arrivano a due minuti e mezzo.
poi qua e là vengono sparsi germi di un'evoluzione criticata da tanti, quella del periodo inside the torn apart/greed killing in cui il gruppo sperimentava con suoni industriali e ombre di voci pulite contrapposte al latrato animale di barney. ecco così spuntare il sax di john zorn in everyday pox, ecco il rallentamento angosciante dell'iniziale circumspect o le voci pulite della bellissima blank look about face.

inutile andare avanti, sono 16 pezzi per 45 minuti netti di attacco frontale, se conoscete già il gruppo sapete cosa aspettarvi, sapete di cosa sono capaci e, da fan, vi dico che è uno dei loro migliori episodi in studio in assoluto. se non li conoscete cercate prima di ascoltare qualcosa per capire di cosa si sta parlando. alla fine non a tutti piace il suono di un tir che esplode in una fonderia annessa ad una centrale nucleare in cui un esercito di chewbacca latra guardando le stelle.

venerdì 24 febbraio 2012

pain of salvation, road salt tour two, 23-02-12, live club, trezzo d'adda




a novembre li abbiamo salutati per l'ultima volta con ancora johan hallgren alla chitarra e fredrik hermansson alle tastiere. già era stato annunciato che entrambi avrebbero lasciato il gruppo alla fine di quel minitour di spalla agli opeth, lasciando così di fatto daniel unico superstite della formazione d'oro del gruppo.

il 23 febbraio al live club di trezzo, i pos presentano la nuova formazione in italia.
partiamo subito dagli aspetti positivi della serata: daniel sa che deve vendere questa sua nuova veste ai vecchi fan e per farlo il volpone pensa bene di risoplverare un po' di pezzi vecchi che non si sentivano su un palco da un po' di tempo. così ecco spuntare chain sling da remedy lane, stress da entropia e iter impius da be, entrambe mai viste in italia. (piccola punta di rabbia per la mancata esecuzione di enter rain che invece è stata fatta in tutte le date precedenti)
inoltre la band funziona particolarmente bene sui pezzi dei due road salt (essendo già dei lavori praticamente del solo gildenlow) e regala grandi brividi con pezzi come the deeper cut, to the shoreline, healing now e soprattutto sisters, già richiesta a gran voce dai fan nel tour precedente.
molto bello poi il siparietto con cui hanno aperto i bis, con daniel alla batteria, gustaf hielm alla chitarra, daniel karlsson al basso e ragnar zolberg alla chitarra e voce a suonare una cover di black diamond dei kiss.

purtroppo però ci sono una serie di note dolenti. in primis per me c'è il batterista léo margarit: è più a suo agio sui pezzi registrati da lui, dove comunque sbaglia più di una volta, ma sul catalogo con ancora johan langell il francese evidentemente lotta per dare una sua versione dei pezzi, col solo risultato di cancellare tutto il gusto che langell aveva nell'arrangiamento e pasticciare le parti a cazzo.
il resto della band funziona meglio, in particolare il mostro gustaf hielm al basso (che aveva già suonato con la band per due anni tra il 92 e il 94, prima di passare ai meshuggah) si conferma come scelta più azzeccata della nuova formazione. il tastierista daniel karlsson rimane in disparte ma fa il suo lavoro, mentre ragnar zolberg si trova davanti il difficilissimo compito di sostituire una figura come quella di johan hallgren, amatissimo dai fan del gruppo. ci riesce sì e no. dalla sua ha un'ottima tecnica strumentale e una voce da eunuco che gli permette di affrontare tranquillamente i controcanti a lui affidati, di contro c'è una figura impresentabile, truccata in modo abbastanza osceno ed un comportamento sul palco che sa un po' troppo di recitato.
a tutto questo va aggiunta la quasi nulla interazione tra i componenti sul palco ma anche il fatto che tutti i "nuovi" musicisti contribuiscono ai cori, il che rende il loro effeto davvero notevole. manca però lo spirito libero e anarchico di hallgren, manca il tocco sul basso di kristoffer, il gusto di langell e l'enigmatica figura di hermansson.

c'è stato un pro e un contro per tutto in questo concerto. però alla fine il pensiero che vince è che i pain of salvation erano un'altra cosa. il senso di assistere alla data di una tribute band si è fatto sentire e il mio parere è che a daniel convienga considerare al più presto chiuso il capitolo pain of salvation, cambiare nome e ripartire da zero. ciononostante, bel concerto.

scaletta:

Svordomsvisan
Road Salt Theme
Softly She Cries
Ashes
Linoleum
The Deeper Cut
1979
To the Shoreline
Chain Sling
Iter Impius
Ending Theme
Stress
Healing Now
Kingdom of Loss
No Way

Black Diamond
The Physics of Gridlock
Sisters

lunedì 20 febbraio 2012

elio e le storie tese, enlarge your penis tour, 19-02-12 cremona, teatro ponchielli


ed ecco a voi, per inaugurare la sezione report su dzw, un resoconto sulla data di ieri sera degli elio e le storie tese al ponchielli di cremona.

ero molto curioso di vedere una data di questo "enlarge your penis" tour, vista la scaletta che gli 8 hanno proposto nelle scorse date.
alle nove e qualcosa sale elio da solo sul palco, dicendo che gli altri sono in ritardo causa blocco del traffico, e attacca una versione chitarra e voce di cavo, storico pezzo degli albori del gruppo. dopo aver invitato mangoni, seduto tra il pubblico, ad unirsi a lui, il cantante viene raggiunto dal resto della band che come overture usa in the stone degli earth wind and fire prima di attaccare la vendetta del fantasma formaggino, con grande goduria del sottoscritto. il pezzo viene eseguito (ovviamente) alla perfezione, con piccole modifiche rispetto all'originale (ovviamente manca abatantuono, purtroppo). mangoni, vestito da mago merlino, si aggira per il palco.

da qui il concerto inizia a regalare grandi classici quali aborto, cartoni animati giapponesi o abbecedario, con picco nell'esecuzione di cateto, accolta da un'ovazione del pubblico.
il resto della scaletta è molto equilibrato fra i vari dischi e dona grandi momenti con tvumdb, plafone, parco sempione (mangoni rasta) e l'immancabile tapparella. da segnalare anche l'esecuzione per intero di discomusic e born to be abramo (mangoni, in tutina aderente, fa la lap dance) che negli ultimi tour venivano tagliate in un medley disco-dance. non mi spiego perché ancora facciano quell'oscenità di shpalman dal vivo, una canzone così insulsa da oscurare quasi un intero disco (mediocre).

trovano anche spazio due inediti: enlarge your penis, dedicata ai famosi banner e pubblicità che infestano le caselle email di tutti, è un pezzo tirato e molto ruffiano che resta un po' in un limbo anonimo. come gli area, dedicata allo storico international pop group, invece è un pezzo piuttosto ostico nei suoi cambi di tempo e armonia, mutuati direttamente dal gruppo di demetrio stratos, che funziona molto meglio, per quanto risulti comunque un divertissement di tributo.

per concludere, la prestazione tecnica di tutti i componenti è stata stepitosa; a me personalmente non è piaciuto particolarmente christian meyer alla batteria, eccessivamente freddo e meccanico nel suonare, ma devo anche dire che non sono mai stato un suo grande fan. (quando prova a suonare rock è terribile)
strepitosa paola folli, sostenuta dal solito meccanismo perfetto che è il resto del gruppo. mangoni, come sempre, geniale.
vi saluto raccontandovi una barzelletta:
un inglese e un francese cadono su un carciofo.

setlist:

cavo
in the stone
la vendetta del fantasma formaggino
shpalman
(gomito a gomito con l') aborto
cartoni animati giapponesi
come gli area
enlarge your penis
plafone
abbecedario
nudo e senza cacchio
cateto
tvumdb
discomusic
born to be abramo
parco sempione

pipppero
tapparella

giovedì 26 gennaio 2012

litfiba, "grande nazione"



13 anni blablabla i litfiba senza piero blabalbla piero senza i litfiba. non è mai successo. chissenefrega. ariecco finalmente i litfiba.

devo dire che avevo paura, mi ci sono avvicinato con molti pregiudizi, nonostante sia fan del gruppo fiorentino da quasi 15 anni. e invece.
e invece "grande nazione" è un bel disco. non è un capolavoro, non è nemmeno avvicinabile a dischi come "terremoto" senza neanche parlare di "17 re" o "litfiba 3". quello che i due toscani hanno prodotto è un gran bel disco rock con tutti i marchi distintivi della premiata ditta. almeno a livello musicale il disco soddisfa e diverte, peccato per almeno metà dei testi che invece risultano banali, semplicisti e forzatamente "contro". inni da stadio scritti in quanto tali insomma, pronti per essere sbraitati dai fan ai concerti. se però si riesce a passare sopra a questo aspetto si può scoprire un disco ruvido e aggressivo, forte anche di una produzione davvero ottima che nel mix tiene ovviamente piero e ghigo in primo piano ma non relega il resto del gruppo a semplice sottofondo.

"fiesta tosta" (gesù...) è l'inizio ed è subito veloce, cattiva e dannatamente rock, così come il primo singolo "squalo", invero uno dei pezzi meno riusciti del disco. momenti alti ce ne sono, dalla divertente "tutti buoni" (con tanto di votantoniovotantonio in conclusione) al midtempo di "elettrica", con climax nella terremotiana "grande nazione", con un testo finalmente degno di nota, e nella conclusiva "la mia valigia", il pezzo più litfiba di tutto il disco che non avrebbe sfigurato su uno dei grandi dischi degli anni '90 (quindi non "infinito").
i momenti bassi non mancano: "tra te e me" si trastulla col gioco di lettere del titolo ma presto diventa stucchevole seppur non brutta, la già citata "squalo", troppo banale soprattutto sul versante lirico, o "anarcoide", quasi punk nella sua aggressività ma rovinata da un testo che è pura demagogia.

quello che resta alla fine è comunque un buon disco, coi suoi alti e bassi ma in generale tirato e divertente, il che aiuta molto a soprassedere su quei 4-5 testi quasi inaccettabili. avevo paura ma mi hanno smentito, divertito e lasciato con molta più tranquillità di quanta ne avessi dopo il primo ascolto di "infinito". per fortuna il suo corpo ha smesso di cambiare. ora è diventato jack sparrow.

domenica 15 gennaio 2012

2011

siccome non ho alcuna voglia di farne una classifica, vi consiglierò alcuni dischi del 2011 in ordine acdc. (a cazzo di cane)
quindi.

the devin townsend project - deconstruction/ghost



il perché lo capite leggendo le recensioni da qualche parte qui sul blog. il concetto di fondo è che l'amico canadese ha una visione d'insieme dei suoi progetti che è pazzesca, una capacità di scrittura e arrangiamento uniche ed un suono inconfondibile. il tutto viene in questi due dischi portato agli estremi, nella violenza e complicazione parossistica (paroloni!) di deconstruction e nella placida tranquillità di ghost.


chris bathgate - salt year



potrei dirvi che il disco è una raccolta di canzoni tutte bellissime, che gli arrangiamenti sono sempre fantasioni e bizzarri senza mai essere pacchiani o duri, che il suono naturale e fisico di questo disco è spettacolare. potrei. la verità è che quello che colpisce nello stomaco è la voce di chris bathgate. il timbro pieno e caldo del ventinovenne dell'iowa è di quelli che lasciano il segno ed è perfettamente a suo agio in queste composizioni che sanno di tradizione americana reimmaginata in un contesto più "da camera". di tanti cantautori che affollano il mondo, questo è uno da ascoltare assolutamente. probabilmente il mio disco dell'anno.


tom waits - bad as me



non che avessi particolari dubbi, intendiamoci. lui non sbaglia. anche quando si adagia su sé stesso (vedi blood money o, in misura minore, alice) non riesce a sbagliare. però uno può aspettarsi che alla sua età e con la quantità di roba che ha fatto possa uscire con un disco così così. non è successo. bad as me è tom waits al 100% dalla prima all'ultima nota, se vogliamo possiamo dire che non spiazza ma la qualità di tutte le canzoni contenute in esso è talmente alta da far dimenticare qualsiasi critica. sono tutte belle, dal bluesaccio di raised right man alle luci soffuse di everybody's talking, passando per le "solite", incredibili ballate come back in the crowd coi suoi profumi messicani o la toccante last leaf cantata in coro con keith richards fino all'inferno di hell boke luce. nulla da dire. un disco a suo modo perfetto.


dead skeletons - dead magick



vi piace lo shoegaze? vi piace la psichedelia? vi piacciono i suoni buffi, i jesus and mary chain, i primal scream o i primi remix dei depeche mode? se la risposta è sì, DOVETE sentire questo disco. gruppo di islandesi che ha preso possesso delle utenze su youtube con video allucinanti, perfetti compagni per il trip acido che il disco propone. come se gli electric wizard perdessero la componente doom e ne rimanesse l'ossessività mantrica della ripetizione fine ad un'alterazione del proprio sentire. un sacco di paroloni che non vogliono dire un cazzo, in buona sostanza questo disco è un trip grandioso, rollatevi quel che volete e poi alzate il volume, non ve ne pentirete.


steven wilson - grace for drowning



steven wilson ne ha fatta di roba nella sua vita. solo con gli album in studio di tutti i suoi progetti si supera la trentina, se poi si aggiungono live, ep e progetti estemporanei c'è da diventare scemi. per questo si rimane a bocca aperta nel constatare che grace for drowning è, a livello di composizione, arrangiamento e mix, il suo lavoro di maggior spessore. la densità del lavoro va di pari passo con la sua durata, 83 minuti spalmati su due dischi, che non deve però spaventare l'ascoltatore (lo stesso wilson consiglia l'ascolto separato dei due dischi e non di fila). in generale c'è sicuramente un'influenza molto più marcata dei primi king crimson ma nelle dodici tracce di cui è composto il disco sentirete di tutto, dal progressive alla psichedelia all'elettronica passando per tenui ballate pianistiche. un lavoro a suo modo enciclopedico ma non per questo di minor valore. capolavoro.


opeth - heritage



watershed è stato veramente una delusione. ora possiamo dirlo senza paura, il suo manierismo, la sua svogliatezza e pochissima spontaneità minavano il terreno anche quando le composizioni erano di buona fattura (2-3 canzoni in tutto il disco). heritage ci restituisce degli opeth (o meglio, un mikael akerfeldt) disposti a rischiare su più fronti. prima e più evidente caratteristica è l'abbandono del growl nella voce e il lampante miglioramento della tecnica vocale di mikael. poi il suono del disco, parecchio lontano dagli stilemi del metal, più vicino all'hard settantiano, perfettamente adatto alle atmosfere del disco, che ancora più del solito va a pescare nell'oscurità del prog minore di quel periodo. al contrario di quella cagata immane di damnation, qui il risultato funziona eccome e siamo ben felici di accogliere quello che è probabilmente il disco più sincero degli opeth dai tempi di blackwater park. bentornati.


three - the ghost you gave to me



non è facile fare quello che fanno i three, per un cazzo. una formula che riesca ad incorporare durezze metal, partiture prog, atmosfere schizofreniche e ritornelloni al limite del pop non è cosa che capita tutti i giorni. tanto meno se il tutto funziona alla perfezione, come nel caso del quintetto americano e di questo loro quinto (sesto, se si conta revisions) disco, successore di un lavoro coi controcazzi come the end is begun. qui il suono dei three viene portato al suo massimo in ogni aspetto, eppure tutto risulta ancora meglio amalgamato in un'unica pasta sonora che lascia a bocca aperta grazie a pezzi da cento come sparrow, high times, numbers o pretty (con tanto di ritornello dance). per riferimento si può dire che se vi piacciono i Rush qui andate sul sicuro, la verità è che se vi piace il vostro rock con un po' di cervello difficilmente non vi innamorerete.


three trapped tigers - route one or die



scoperta tardiva del 2011, tanto che promette già di colonizzare il mio 2012, route one or die è il primo disco intero di questo gruppo inglese dedito a ciò che viene definito math rock. il parallelo che viene più facile fare è con i battles ma, a differenza del supergruppo americano, i ttt risultano molto più "suonati" e fluidi su disco. mentre infatti i battles lavorano molto su loop ciclici, intersecandoli in strutture che per approccio ricordano più l'elettronica che il rock, il trio londinese adotta strutture e suoni decisamente più sporchi e live, lasciando che il sudore scorra per tutta la durata del disco. ci sentirete i king crimson come i tangerine dream come gli ozric tentacles ma il tutto in salsa decisamente più acida e noise, con muri di suono che possono far venire in mente lo shoegaze primigenio più casinista. e, in tutto questo, vi divertirete come dei matti.


decemberists - the king is dead



il gruppo di portland scarnifica il proprio suono di tutti gli orpelli che avevano fatto brillare the hazards of love di una luce tutta sua e torna ad una semplicità che, se non stupisce, incanta nel suo svolgersi tra melodie d'effetto e arrangiamenti asciutti ma mai banali. la classe di un musicista come peter buck si fa sentire quando il chitarrista dei rem entra in gioco, creando almeno uno dei capolavori del disco (down by the water). il resto lo fanno i piccoli affreschi acustici di june hymn e january hymn o le forti infiltrazioni di tradizione americana in rox in the box e soprattutto all arise! che alleggeriscono l'ascolto senza per questo allontanarsi dal discorso generale del disco.


non sto a dire che anche gli altri dischi di quest'anno che ho già recensito sono secondo me tutti belli, in particolare yun lurn dei burmese (disco estremo dell'anno coi gigan), i foo fighters (disco autoradio dell'anno) e i pain of salvation (perché sì.).
questi altri invece, in nessun ordine particolare, mi sono tutti piaciuti.

- mastodon - the hunter

- earth - angels of darkness, demons of light 1

- luup - meadow rituals

- obake - obake

- treni all'alba - 2011 ad

- yob - atma

- chris watson - el tren fantasma

- my dying bride - the barghest o' whitby

- primus - green naugahyde

- blackfield - welcome to my dna

infine, il premio per peggior disco dell'anno quest'anno coincide anche con quello per peggior disco del decennio e di un'intera carriera ed ovviamente va a quella sublime opera d'arte che è illud divinum insanus dei "morbid angel" (virgolette dovute). dire che è una vergogna è fargli un complimento. altre sòle notevoli sono: lou reed che rovina un disco dei metallica, impressions dei lunatic soul, l'omonimo degli evanescence e l'anonimo dei symphony x. senza dimenticare a dramatic turn of events dei dream theater, innocuo ed inoffensivo nei suoi momenti migliori.
divertitevi.