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domenica 19 dicembre 2021

black country, new road, ‘for the first time’


i black country, new road sono un settetto londinese che con ‘for the first time’ sforna un esordio clamoroso quanto quello degli amici black midi di un paio d’anni fa (amici a livello che tra loro si chiamano ‘black midi, new road’).

non siamo lontanissimi da quei suoni, anche se con delle differenze fondamentali. ad esempio alla scarna ritmicità dei black midi i black country contrappongono arrangiamenti più stratificati con tastiere, violino e fiati, oltre all’ossatura di batteria, basso e (due) chitarre; il suono generale è più verso un rock cameristico raffinato, meno in faccia anche se non meno live.

l’amore per gli slint unisce i due gruppi ma i black country sfruttano anche la vena malinconica/onirica dei bark psychosis (‘athens, france’), risultando meno aggressivi e più morbidi all’ascolto.

c’è poi l’aggiunta di colori presi dalla musica klezmer che spesso virano le tonalità dei pezzi in modo inaspettato (‘instrumental’), 


la voce di isaac wood si esprime quasi unicamente in uno spoken word che ricorda un po’ david thomas e un po’ david byrne, qualche melodia in più poteva essere un valore aggiunto ma considerato il continuo movimento degli strumenti anche questa scelta funziona, pur non essendo l’idea più originale del disco.


sei pezzi per 40 minuti di musica, ogni brano un viaggio diverso: tra il klezmer-math rock di ‘instrumental’ e ‘opus’, sua controparte drammatica e intensa spezzata da momenti frenetici e danzerecci, passano gli svacchi psichedelici di ’athens’ e la tensione in continuo crescendo di ‘science fair’ ma soprattutto l’epica ‘sunglasses’, un tripudio di chitarre, cambi di direzione e arrangiamenti creativi che mantengono il pezzo entusiasmante per i suoi quasi 10 minuti di durata. senza dimenticare il quadretto di ‘track x’ che sposta il baricentro verso un minimalismo quasi da modern classical ricordando i suoni dei rachel’s o dei these new puritans.


tanta carne al fuoco ma anche un’ottima visione d’insieme, considerata anche la giovanissima età dei musicisti coinvolti (attorno ai 20 anni come i black midi); in ogni caso ‘for the first time’ è un disco affascinante, complesso, ben studiato, suonato da un gruppo compatto e straripante di idee che promette grandissime cose per il futuro. 

venerdì 28 giugno 2019

black midi, 'schlagenheim'


i black midi per me arrivano dal nulla, se ne escono come se niente fosse con quello che al momento è il più bel disco di questo 2019. sono in quattro, sono inglesi, hanno vent'anni e hanno un suono che vi aprirà la faccia.

è una sorta di indie-prog, prende gli incastri e i cambi repentini del prog e del math rock e li immerge in un suono indie inglese asciutto e live, cambiano umore continuamente tenendo come linea continua la voce sbiellata di geordie greep, uno che è squinternato come david yow ma ha un timbro da peter hammill e ogni tanto sbrocca in cascate di parole che ricordano parecchio david thomas. e suona pure la chitarra.
la batteria di morgan simpson è ipercinetica e dinamica, non lascia un secondo di tregua, l’attacco ritmico è impressionante così come la sincronia perfetta col basso di cameron picton, legato quasi telepaticamente alle pelli. il chitarrista si chiama matt kwasniewski-kelvin e si lancia in bordate di suono epiche e gigantesche (con buon uso di effettistica ma non eccessiva) per poi abbatterle subito e tornare a secchissimi riff dispari che si dislocano sulla ritmica creando texture cangianti in continua mutazione.
nonostante i continui cambi di umore, è musica assolutamente rock, in tutto e per tutto: le influenze esterne sono talmente incastonate nel suono da non essere realmente rintracciabili, a modo suo ‘schlagenheim’ è una perla di purezza rock, per quanto preso a martellate.
in ‘near dt, mi’ potreste sentire eco di drive like jehu e fugazi, gli arpeggi iniziali di ‘western’, apice del disco, hanno un retrogusto di slint ma la ripartenza è puro math alla three trapped tigers e quando poi si apre, sarà la voce, sarà ‘sto buco d’aazoto, potrebbe apparire il fantasma dei talk talk; ‘of schlagenheim’ introduce passaggi jazzati apertissimi da cui escono con una ripresa alla mars volta e urla da mike patton, il delirio finale di ‘ducter’ è liberatorio e conclude un disco dalla creatività esplosiva ma anche sorprendentemente controllata, considerando l’età media del gruppo.
si rifugge la forma canzone in ogni modo, si fa a pezzi il rock come succedeva nei primi ’90 ma qui il risultato è legato ai suoni dei 2000, la produzione non è mai eccessiva, il mix impastato ma nitido al punto giusto, il master ottimo.

non pensate di ascoltarlo per rilassarvi, è musica che sta addosso, ansiogena e scura ma anche profonda e ben congegnata, oltre che suonata egregiamente; sì insomma, vi darà delle soddisfazioni ma magari dovrete sbatterci un po’ la faccia.
più o meno come i tropical fuck storm l’anno scorso, questi quattro arrivano e si impongono artisticamente sulla concorrenza con una miscela originale e abbastanza unica, una personale declinazione di un suono complesso da creare e ancor più da gestire ma i black midi riescono nell’intento e si lasciano pure ampi margini di miglioramento, se tutto va bene ne vedremo ancora di belle da questi qui.

domenica 28 agosto 2016

talk talk, 'spirit of eden'/'laughing stock'



il termine “avanguardia” viene spesso usato a sproposito. l’assurdo è che un’avanguardia non è di fatto definibile nel momento in cui nasce ma solo a posteriori, quando e se si rivela effettivamente come tale: deve aver segnato una strada che poi altri abbiano percorso, se no è solo un vicolo cieco.
credo che nessuno al mondo avrebbe mai pensato di affibiare questo termine alla musica dei talk talk fino al 1988 e da allora son dovuti passare almeno 10 anni prima che quei due dischi, ‘spirit of eden’ e 'laughing stock’, rivelassero i mille flussi che da loro si erano creati.
un gruppo synth-pop con singoli di successo come ‘such a shame’ o ‘it’s my life’ si reinventa in una sorta di art-pop raffinatissimo con ‘the colour of spring’ per poi esplodere in una creatività straripante e contemplativa allo stesso tempo in un finale di carriera che ha ben pochi eguali nella storia della musica “leggera”.
i due dischi vivono ognuno la sua vita ma sono comunque molto vicini per approccio e impianto compositivo. in comune hanno un senso di pace, uno sguardo fisso sull’orizzonte malinconico ma positivo e la capacità di guardare al futuro con una naturalezza che lascia a bocca aperta, oltre all'utilizzo musicale del silenzio, col quale la musica interagisce in vari modi.

‘spirit of eden’ è il primo, 1988. ufficialmente i talk talk sono mark hollis (voce, piano, hammond e chitarra), paul webb (basso) e lee harris (batteria) ma di fatto tim friese-greene è il loro george martin e anche più: al disco contribuisce con harmonium, piano, organo e chitarra oltre alla composizione e registrazione di tutti i brani con hollis e alla produzione.
la scrittura dei pezzi sfrutta la metodologia di 'bitches brew': ore di materiale improvvisato vengono editate dai due in studio e sopra vengono scritte melodie ed arrangiamenti per gli ospiti (in totale suonano 16 musicisti e un coro sull’album). la prima facciata del disco si svolge come una suite, nonostante siano distinte tre tracce come tre movimenti mentre i tre brani della seconda facciata hanno identità un poco più distinte.
la prima cosa che salta all’orecchio è l’uso strabiliante che il gruppo fa delle dinamiche: da vuoti quasi totali si passa ad esplosioni di luce inaspettate che travolgono l’ascoltatore, un trucco che da qui i mogwai hanno imparato molto bene. generalmente l’atmosfera è distesa, con grande respiro ed elegantemente punteggiata dagli interventi di fiati onirici che ricordano il david sylvian più poetico di ‘secrets of the beehive’ (e non verranno dimenticati dagli ulver di ‘shadows of the sun’). sopra alle tessiture sonore fluttua la voce di harris, drammatica, espressiva, profondamente umana nell’essere fragile e quasi persa in questo mare di suoni, un cantante troppo spesso ingiustamente dimenticato o sottovalutato (per certi versi anticipa la poetica alienata di thom yorke, incluso l’uso espressivo di una faccia… particolare).
nel procedere del disco ci si trova ad ascoltare la rarefazione dei sigur ros, la dilatazione cristallina dei bark psychosis, la classicità dei godspeed you black emperor, le chitarre jangle dello shoegaze. praticamente tutto quello che negli anni successivi è stato etichettato come “post” nel rock è partito o da qui o da ‘spiderland’ degli slint (che è sì successivo ma arriva da una strada completamente diversa (l’hardcore, i fugazi) ed esplora quindi le conseguenze più marce e disturbanti di questo suono).
i brani della seconda facciata, come già detto, sono più distinti e tornano un po’ in direzione di una forma più definita, pur mantenendo la sospensione ed il respiro della suite. ‘i believe in you’ fu anche pubblicata come singolo in un edit di meno di 4 minuti per il quale fu girato persino un video abbastanza fallimentare, come a ribadire che questi sono album da assimilare in toto e non certo riproducibili alla radio. il pezzo è effettivamente il più “canzone” del disco e ricorda da vicino alcuni momenti di ‘the colour of spring’ prima del fade out che accompagna nella conclusiva ‘wealth’, ballata profondamente spirituale per voce, piano e hammond che poggia morbida sul silenzio, uno dei grandi protagonisti del disco. qui il silenzio viene usato in molti modi, dal contrasto dinamico con le esplosioni alle drammatiche sospensioni delle cadenze, da linee melodiche interrotte ai respiri di hollis tra una frase e l'altra, il silenzio è uno strumento come gli altri nelle mani del gruppo ed è sotteso ad ogni momento della loro musica.

impossibile ed insensato riprodurre un disco del genere dal vivo e infatti non ci fu nessun concerto di supporto. anzi, non ci fu proprio più nessun concerto visto che da qui alla fine i talk talk furono un progetto da studio di hollis e friese-greene: da giovani canzonettari trascinatori di folle a raffinati ed eleganti topi di studio, quanti altri gruppi hanno fatto una cosa del genere?

‘laughing stock’ arriva invece nel ’91 e da un lato conferma la strada intrapresa con ‘spirit of eden’ ma dall’altro ne offre una lettura diversa, un pelo meno rarefatta e a tratti più meccanica, lambendo territori che verranno poi ampiamente esplorati da gruppi come tortoise o portishead. 
in generale il disco torna ad una maggiore ritmicità, almeno più costante e fa meno uso dei chiaroscuri dinamici estremi che caratterizzavano ‘spirit of eden’, oltre a puntare di più sulle singole composizioni come finestre su punti diversi di un panorama, senza il formato suite. questo non vuole certo dire che sia un disco disomogeneo ma risulta più definito ed un poco meno aperto del suo predecessore. ritroviamo le improvvisazioni editate e la folla di ospiti (in tutto questa volta 17 musicisti), resta l’espressività unica di hollis che appare più perso, distante, a tratti quasi rassegnato, rimane il silenzio di fondo a dare una profondità pazzesca al suono.
se l'inizio quieto e dimesso di 'myrrhman' non sorprende è solo perché c'è già stato 'spirit of eden' ma questo non toglie niente all'incredibile poesia del pezzo che gioca con armonie oblique e interventi lunari di fiati e archi. ‘ascension day’ è l’episodio più movimentato e percussivo, con un finale che alza al massimo dinamica e pathos dopo che la tensione si è accumulata per l’intero brano, magistrale. il finale di ‘taphead’ è invece ossessivo e sottopelle come lo sarà il trip-hop, pur non facendo uso di elettronica. la conclusiva ‘runeii’, l’ultima canzone dei talk talk, è la logica conseguenza di ‘wealth’, ancora più dilatato, con la voce di hollis complementata ora dalla chitarra, ora dal piano e un commovente hammond che va e viene il vento.
se c’è meno da dire su questo album è solo perché la vera rivoluzione era già stata fatta da ‘spirit of eden’, ‘laughing stock’ ne riprende il modus operandi e lo esplora per variazioni sonore. troviamo molti momenti marcatamente malinconici e desolanti che anticipano quello che faranno i low e gli altri definiti ‘slo-core’. un sacco di definizioni, un sacco di gruppi e ognuno di loro ha esplorato un aspetto del suono dei talk talk ma loro avevano già tutto questo, assimilato, controllato e perfettamente focalizzato.
lo stesso fatto che si siano usati così tanti nomi per definire la musica del gruppo fa capire quanto questa sia difficile da inquadrare o descrivere. ha dei precedenti, in alcuni momenti si può  pensare alla scuola di canterbury di fine ’60, al già citato sylvian, alle atmosfere di jon hassell o a certi album dell’aacm di chicago; si potrebbe addirittura tirare in ballo l’idea del third stream, se solo gli ingredienti del suono talk talk non fossero così tanti: la teoria del third stream lo voleva a metà tra jazz e classica, qui ci sono anche almeno il rock e il pop e tutto è mischiato con tale maestria e naturalezza che non lo si sente mai sbilanciato in alcun modo, è una musica totale e libera.

dopo questo disco il gruppo si scioglie e ognuno va per la sua strada: harris e webb si ritrovano negli ottimi o’rang coi quali incidono due dischi che proseguono il discorso iniziato tramite improvvisazioni editate su cui poi sovraincidono voci e strumenti vari (molto consigliato il primo, ‘herd of instinct’); friese-greene si è dato a una poco interessante carriera solista come heligoland, pubblicando un paio di dischi purtroppo dimenticabili. mark hollis invece si è ritirato dalla musica per stare con la famiglia, ha pubblicato solamente un disco solista omonimo nel ’98 che offre una versione più “cantautoriale” degli ultimi talk talk, molto piacevole e ovviamente ben fatto.


avanguardia è una parola difficile, soprattutto in tempi in cui mode e suoni cambiano ad una velocità insostenibile. l’arte e la creatività però trascendono tutto questo e si piazzano su un piano superiore, quello della libera espressione e del sentire umano e i talk talk sono stati esattamente questo, un’esplosione inaspettata di creatività, intelligenza ed espressività. il suono con cui hanno materializzato tutto questo è andato poi a fare scuola, è stato dissezionato, è stato etichettato ma di fatto quello che i talk talk hanno creato non è rock, non è post-rock, non è pop, non è jazz, non è classica, è una sola cosa: arte. non capirlo e volerla inquadrare è uno sbaglio e un’offesa nei suoi confronti.