è il 1995 quando fa la sua comparsa sul mercato discografico un gruppo di seattle destinato a segnare indelebilmente il corso dell’heavy metal, i nevermore.
quando la epic chiede ai sanctuary di adattare il proprio stile al successo del grunge, il cantante warrel dane e il bassista jim sheppard non sono granché felici e abbandonano il gruppo, segnandone di fatto la fine per vent’anni. i due transfughi creano un nuovo progetto per continuare a suonare insieme e arruolano il giovane virtuoso jeff loomis alla chitarra e il batterista mark arrington, il quale presto abbandona e viene sostituito dall’incredibile van williams, non prima di aver registrato metà delle batterie per l’album di esordio, ‘nevermore’.
lungi dall’essere all’altezza dei suoi successori, ‘nevermore’ impone comunque la personalità dei musicisti e mostra la loro capacità di suonare metal, di base thrash, con un carattere unico e nuovo, moderno, aggressivo ma stranamente melodico e approcciabile anche per chi non è abituato a questa pesantezza.
il difetto principale del disco sta nella registrazione e produzione relativamente a basso costo, fatto che penalizza principalmente le chitarre di loomis che troppo spesso suonano loffie e senza il carattere unico a cui ci abitueremo coi dischi successivi; anche la batteria risente del mix mediocre, la differenza di suono tra i due batteristi è enorme e purtroppo quello a cui va peggio è proprio williams: il mix delle sue parti è caotico e mina la resa della sua già ottima prestazione.
come contenuto ci troviamo di fronte il disco più classicamente thrash dei nevermore, per quanto sia un thrash già re-immaginato e interpretato da un’ugola assolutamente unica come quella di dane, un cantante che qualunque altro gruppo thrash al mondo può solo sognarsi.
‘what tomorrow knows’ non è affatto un brutto pezzo di apertura ma se le vogliamo confrontare con ‘the seven tongues of god’, ‘narcosynthesis’ o ‘born’ si manifesta una certa ingenuità soprattutto strutturale, con cambi non molto fluidi e un riff ripetuto allo stremo. ma la differenza è palese anche rispetto alla seguente ‘c.b.f.’ in cui le parti di chitarra di loomis si impongono e compare la batteria di van williams a rimarcare il salto di qualità, un pezzo che punta già a ‘dreaming neon black’ (così come ‘the hurting words’ che però gira a vuoto per 6 minuti) e mostra una struttura molto meglio pensata.
tutto è marchiato dalla voce unica di dane che ancora usa molto il suo terrificante falsetto sporco e demoniaco (una sorta di king diamond delle fogne) alternato al tono drammatico che è già perfettamente controllato in un pezzo come ‘the sanity assassin’, dominato dal cantante, sebbene il brano sia un pochino troppo lungo.
non c’è niente di davvero brutto in questo disco ma nemmeno niente di memorabile e la conclusiva ‘godmoney’ ne è il perfetto emblema, riff buoni ma non eccezionali, ritmica relativamente semplice e dane scatenato senza però avere un palco fatto su misura per lui, come succederà già dal disco successivo.
si aggiunge il secondo chitarrista pat o’brien (poi nei cannibal corpse, poi arrestato per assalto e trovato con lanciafiamme e un centinaio di fucili in casa) e almeno come suoni va meglio già dall’ep ‘in memory’ del ’96, mixato in maniera decisamente più coesa e con un tono scuro e opprimente che valorizza molto di più il suono del gruppo. anche come composizioni si vola molto più in alto, a partire dalla buona botta di ’optimist or pessimist’. ‘matricide’ mostra ancora una volta quella drammatica dinamicità che regnerà su ‘neon black’ ma non riesce del tutto a metterla a fuoco, sembrando alla fine quasi una reinterpretazione della leggendaria ‘the lady wore black’ dei queensryche, influenza palese anche nella seguente ‘in memory’ che però pian piano mostra i denti, restando sempre un mid-tempo si appesantisce e sfocia in un bel solo di chitarra, il miglior pezzo scritto fin qui dai nevermore.
interessante la cover di ‘silent hedges/double dare’ dei bauhaus che mette in mostra la capacità del gruppo di riportare tutto al proprio suono, come succederà poi nella strepitosa “cover” (virgolette dovute) di ‘the sound of silence’.
chiude l’ep ’the sorrowed man’, riportando ancora davanti i queensryche più teatrali e promettendo una svolta più emotiva nella musica dei nevermore che però si farà aspettare ancora un po’: mancano ancora tre anni a ‘dreaming neon black’ mentre ‘the politics of ecstasy’ sarà molto più cerebrale e complesso.
quello che è molto interessante notare in queste prime due uscite è come molte delle idee che porteranno il gruppo al successo sono già presenti, dalla dinamicità ritmica ai siparietti teatrali, la continua tensione cervello/cuore, la ricerca strutturale e la continua rielaborazione personale delle influenze (metallica e queensryche su tutti).