domenica 27 luglio 2025

nevermore, 'nevermore'/'in memory'

 


è il 1995 quando fa la sua comparsa sul mercato discografico un gruppo di seattle destinato a segnare indelebilmente il corso dell’heavy metal, i nevermore.

quando la epic chiede ai sanctuary di adattare il proprio stile al successo del grunge, il cantante warrel dane e il bassista jim sheppard non sono granché felici e abbandonano il gruppo, segnandone di fatto la fine per vent’anni. i due transfughi creano un nuovo progetto per continuare a suonare insieme e arruolano il giovane virtuoso jeff loomis alla chitarra e il batterista mark arrington, il quale presto abbandona e viene sostituito dall’incredibile van williams, non prima di aver registrato metà delle batterie per l’album di esordio, ‘nevermore’.


lungi dall’essere all’altezza dei suoi successori, ‘nevermore’ impone comunque la personalità dei musicisti e mostra la loro capacità di suonare metal, di base thrash, con un carattere unico e nuovo, moderno, aggressivo ma stranamente melodico e approcciabile anche per chi non è abituato a questa pesantezza.

il difetto principale del disco sta nella registrazione e produzione relativamente a basso costo, fatto che penalizza principalmente le chitarre di loomis che troppo spesso suonano loffie e senza il carattere unico a cui ci abitueremo coi dischi successivi; anche la batteria risente del mix mediocre, la differenza di suono tra i due batteristi è enorme e purtroppo quello a cui va peggio è proprio williams: il mix delle sue parti è caotico e mina la resa della sua già ottima prestazione.

come contenuto ci troviamo di fronte il disco più classicamente thrash dei nevermore, per quanto sia un thrash già re-immaginato e interpretato da un’ugola assolutamente unica come quella di dane, un cantante che qualunque altro gruppo thrash al mondo può solo sognarsi.


‘what tomorrow knows’ non è affatto un brutto pezzo di apertura ma se le vogliamo confrontare con ‘the seven tongues of god’, ‘narcosynthesis’ o ‘born’ si manifesta una certa ingenuità soprattutto strutturale, con cambi non molto fluidi e un riff ripetuto allo stremo. ma la differenza è palese anche rispetto alla seguente ‘c.b.f.’ in cui le parti di chitarra di loomis si impongono e compare la batteria di van williams a rimarcare il salto di qualità, un pezzo che punta già a ‘dreaming neon black’ (così come ‘the hurting words’ che però gira a vuoto per 6 minuti) e mostra una struttura molto meglio pensata.

tutto è marchiato dalla voce unica di dane che ancora usa molto il suo terrificante falsetto sporco e demoniaco (una sorta di king diamond delle fogne) alternato al tono drammatico che è già perfettamente controllato in un pezzo come ‘the sanity assassin’, dominato dal cantante, sebbene il brano sia un pochino troppo lungo.

non c’è niente di davvero brutto in questo disco ma nemmeno niente di memorabile e la conclusiva ‘godmoney’ ne è il perfetto emblema, riff buoni ma non eccezionali, ritmica relativamente semplice e dane scatenato senza però avere un palco fatto su misura per lui, come succederà già dal disco successivo.


si aggiunge il secondo chitarrista pat o’brien (poi nei cannibal corpse, poi arrestato per assalto e trovato con lanciafiamme e un centinaio di fucili in casa) e almeno come suoni va meglio già dall’ep ‘in memory’ del ’96, mixato in maniera decisamente più coesa e con un tono scuro e opprimente che valorizza molto di più il suono del gruppo. anche come composizioni si vola molto più in alto, a partire dalla buona botta di ’optimist or pessimist’. ‘matricide’ mostra ancora una volta quella drammatica dinamicità che regnerà su ‘neon black’ ma non riesce del tutto a metterla a fuoco, sembrando alla fine quasi una reinterpretazione della leggendaria ‘the lady wore black’ dei queensryche, influenza palese anche nella seguente ‘in memory’ che però pian piano mostra i denti, restando sempre un mid-tempo si appesantisce e sfocia in un bel solo di chitarra, il miglior pezzo scritto fin qui dai nevermore.

interessante la cover di ‘silent hedges/double dare’ dei bauhaus che mette in mostra la capacità del gruppo di riportare tutto al proprio suono, come succederà poi nella strepitosa “cover” (virgolette dovute) di ‘the sound of silence’.

chiude l’ep ’the sorrowed man’, riportando ancora davanti i queensryche più teatrali e promettendo una svolta più emotiva nella musica dei nevermore che però si farà aspettare ancora un po’: mancano ancora tre anni a ‘dreaming neon black’ mentre ‘the politics of ecstasy’ sarà molto più cerebrale e complesso.


quello che è molto interessante notare in queste prime due uscite è come molte delle idee che porteranno il gruppo al successo sono già presenti, dalla dinamicità ritmica ai siparietti teatrali, la continua tensione cervello/cuore, la ricerca strutturale e la continua rielaborazione personale delle influenze (metallica e queensryche su tutti). 


domenica 20 luglio 2025

queensryche, 'hear in the now frontier'

 


a volte ad alcuni dischi succedono delle cose veramente ingiuste. visto che abbiamo tirato in ballo più volte i metallica, facciamolo ancora una volta e pensiamo a ‘load’/‘reload’, due dischi più che buoni che contengono alcuni dei pezzi più belli scritti dal gruppo (‘fixxxer’, ‘until it sleeps’, ‘the house that jack built’ ma anche altre) eppure sono continuamente presi di mira e usati come esempio del crollo della band, senza il minimo rispetto per l’ottimo lavoro compiuto.

‘hear in the now frontier’, 1997, rientra pienamente in questa categoria. negli anni è stato insultato, ridicolizzato e persino rinnegato da alcuni fan che, incapaci di andare oltre al loro personale gusto, non sono stati in grado di vedere ciò che c’è di buono o di ottimo in quello che poi ok, a conti fatti è innegabilmente il disco meno riuscito dei queensryche con chris degarmo, oltre ad essere l’ultimo.


di fatto ‘frontier’ è un ‘empire’ aggiornato ai tempi, solo meno ispirato. degarmo non ha mai nascosto il suo gradire il nuovo suono di seattle, in particolare nella forma suonata dagli alice in chains, diventa amico di jerry cantrell e i due collaboreranno spesso in futuro. ecco quindi un disco fatto di riff di chitarra che prendono proprio da quel suono, lontanissimi dalle armonie e dagli assolo incrociati di ‘mindcrime’ e a due universi di distanza dall’oscurità e dall’ecletticità di ‘promised land’. 

tate cerca un timbro crudo, a volte sgraziato e incrinato da un overdrive che diventerà fisso nei dischi successivi; quando gli riesce ci sono buoni risultati, altrove è semplicemente fuori luogo per la sua voce.

si potrebbe dire che per ogni buon pezzo ce ne sono un paio inutili, rincarando la dose dicendo che alla fine di veramente imperdibile ce n’è uno solo, quella ‘spool’ che spicca come un particolare a colori in una foto in bianco e nero. è anche vero però che molti dei pezzi inutili sono comunque gradevoli e possono contenere qualche sprazzo di illuminazione, per cui alla fine, a seconda delle inclinazioni personali, la media cavalca la linea della sufficienza.


‘cuckoo’s nest’, ‘the voice inside’, ‘saved’, ‘miles away’, ‘hit the black’, tutta roba che si fa ascoltare, pezzi rock che non hanno nulla di metal, qualche buon ritornello e dei riff decenti ma i tocchi di classe della sezione ritmica scompaiono e tate fa finta di essere un cantante qualsiasi.

‘get a life’, ‘hero’ e ‘anytime/anywhere’ invece sono proprio pezzi brutti di cui non si riesce davvero a salvare niente, soprattutto se si pensa al glorioso passato del gruppo.

altri risultati ottengono invece ‘sign of the times’, ‘some people fly’ o ‘you’, pezzi che hanno una verve anche compositiva un pochino più accentuata e in cui la voce di tate fa davvero la differenza, pur restando orfani dei giochi ritmici.

si diceva che l’unico momento in cui il gruppo mostra davvero la sua classe è la conclusiva ‘spool’. non pensiate che torni il metal solo per un pezzo, rimane un pezzo rock ma il suo sviluppo è inquieto, le chitarre decisamente più incisive e la voce di tate di nuovo a livelli stellari, oltre ad essere l’unico pezzo in cui rockenfield e jackson fanno la differenza. assolutamente degna di stare in un best of del gruppo, purtroppo è anche l’unica del disco.


si diceva che il tour di ‘promised land’ è stato un mezzo flop e che la emi minacciava di scaricare il gruppo, no? ecco, il tour di ‘frontier’ non verrà nemmeno portato a termine, dopo un mese tate si ammala e il gruppo deve annullare molte date, poi la emi america va in bancarotta e i queensryche si ritrovano senza etichetta, costretti a pagarsi i concerti già prenotati per portare a termine gli obblighi. durante questo casino, degarmo annuncia al gruppo che non ce la fa più e lascia, l’annuncio viene dato all’inizio del ’98 e da allora il chitarrista è scomparso dalla scena musicale e pilota gli aerei. 

di fatto questa ferita non si rimarginerà mai, ‘hear in the now frontier’ è la fine di un’era e da qui in poi il timone verrà preso saldamente in mano da tate che condurrà il gruppo alla distruzione tra qualche disastro e pure qualche buon risultato ma sempre meno con la collaborazione degli altri, fino all’esasperazione di ‘mindcrime 2’, di fatto un suo disco solista.

questa storia poteva chiudersi meglio, siamo tutti d’accordo. dopo tanti anni però trovo giusto dare una nuova possibilità a ‘frontier’ perché non si meritava tutta la merda che gli è stata tirata in testa.

domenica 13 luglio 2025

queensryche, 'promised land'

 


dopo il successo planetario di ‘empire’, la emi sta addosso ai queensryche chiedendo a gran voce un altro disco sulla stessa scia, fatto di melodie solari e ritornelli da stadio, del resto un sacco di fan in giro per il mondo hanno conosciuto il gruppo proprio con quel disco e non vedono l’ora di avere nuove canzoni da sparare in macchina.

gli è andata male.

se ‘operation: mindcrime’ è l’apice della teatralità dei queensryche, ‘promised land’ è la vetta del loro versante più cerebrale, oscuro e progressive. il paragone tra i due dischi finisce qui perché tra essi c’è un oceano, a livello di suono. c’è una sincera emozionalità mercuriale nei nuovi pezzi che tende ad aumentare i contrasti tra luci e ombre, rendendo gli spigoli più pericolosi e le poche luci più morbide. pochissime potremmo dire, visto che parliamo del disco più scuro, paranoico e intenso di tutta la carriera.


la stragrande maggioranza del materiale è firmato degarmo ma di fatto ‘promised land’, uscito nel 1994, è forse il disco più di gruppo che i queensryche abbiano pubblicato, con vari contributi di rockenfield e un faro perennemente acceso sulla sezione ritmica. è un disco eclettico, in cui si va dal metal alle ballate pianistiche, passando per groove ossessivi, melodie alienanti e tocchi di un’inedita psichedelia che purtroppo tornerà molto raramente. del resto è un disco che parla di perdita di identità psicologica, fisica e di alienazione, pensare ai pink floyd non è così fuori luogo.

dopo l’intro effettistica ‘9:28 am’, a firma rockenfield, ‘i am i’ esplode come nessuno si sarebbe aspettato. un 6/8 con un riff metal maligno e ribassato, modernissimo rispetto alla nostalgia 80s di ‘empire’, sostenuto da un tappeto incessante di batteria e percussioni e intrecciato con un sitar (suonato da degarmo). quando tate entra ci si chiede se sia lo stesso gruppo, il suo tono è aggressivo, acido, cinico e sapientemente trasfigurato da effetti digitali. la teatrale apertura con melodia mediorientale del ritornello è spiazzante quanto affascinante e il magico assolo che la segue porta definitivamente il pezzo tra i migliori mai scritti dai queensryche.

‘damaged’ è un hard rock più classico ma la tensione emotiva non cede mai, sostenuta soprattutto dalla drammatica prova di tate. se le composizioni sono di degarmo, è anche da dire che non avrebbero funzionato allo stesso modo senza un geoff tate al massimo della sua forma vocale che con questo disco alza ulteriormente l’asticella dei suoi standard, tanto che purtroppo non riuscirà mai più a raggiungerla di nuovo.

con ‘out of mind’ si calmano le dinamiche ma non la tensione: la batteria con pochi colpi crea un’attesa continua, ciclica, su cui il basso fluttua con linee bellissime mentre i classici arpeggi di chitarra sono trasfigurati in armonie aliene e ansiose. tate mostra un controllo impressionante mentre racconta di isolamento e follia ma il vero apice del brano è il commovente assolo di degarmo, uno dei suoi migliori in assoluto. ed è ancora lui il protagonista di ‘bridge’, ballata acustica dal ritornello più solare in cui si affronta il tema di un difficile rapporto tra padre e figlio, uno dei tre singoli tratti dal disco (gli altri erano ‘i am i’ e ‘disconnected’).


‘promised land’ è la prima canzone della carriera ad essere accreditata all’intero gruppo e questo si sente. su una struttura dai bordi sfocati e continuamente “disturbata” dai campionamenti di rockenfield, il gruppo allestisce uno psicodramma musicale in cui i vuoti contano più delle note suonate. tate suona per la prima volta il sax su disco e l’effetto è straniante, il basso è una pulsazione isterica e i pochi riff suonati ossessivamente dalle chitarre sono lenti, paludosi e paranoici, tutto quello che il pubblico di ‘empire’ non avrebbe voluto. il testo parla dell’alienazione da successo (sì, potete pensare a ‘the wall’) e tate lo interpreta con un trasporto che toglie il fiato, passando da sussurri ad acuti sguaiati.

‘disconnected’ concede un attimo di respiro ma lo fa in modo inaspettato, con basso e batteria in primo piano e un pesantissimo quanto groovy riff di chitarra mentre geoff si produce in uno spoken word inedito.

l’ansia torna a livelli altissimi con la straziante ‘lady jane’, con degarmo al piano e il gruppo ad accompagnare tate in una ballata drammatica che porta a ‘my global mind’, una delle poche luci in mezzo all’oscurità; è l’unico pezzo in cui ci sono tracce di ‘empire’ con una bella strofa e un ritornello luminoso, nonostante il testo tratti di perdita di se stessi di fronte ai cambiamenti portati dalla globalizzazione.

siamo quasi alla fine ma i queensryche non mollano la presa: ‘one more time’ è un pezzo soffocante, dalle ritmiche spigolose e marcato ancora una volta dagli strani riff di degarmo, bellissimo ma il gran finale è affidato a ‘someone else?’ e non potrebbe essere altrimenti. il solo degarmo al piano accompagna tate in un’interpretazione che sta là in cima assieme a ‘anybody listening?’ tra le più grandi prove vocali rock di sempre, il testo riassume efficacemente lo smarrimento di tutto il disco e l’intensità cresce a dismisura per poi crollare all’improvviso e lasciare il vuoto di una domanda senza risposta.


‘promised land’ è un disco unico e uno dei capolavori che i queensryche hanno pubblicato insieme ad altri grandissimi dischi, la definizione finale di quella tensione psicologica che da ‘rage for order’ è sempre stata presente e qui trova forma compiuta. oggi si può tristemente dire però che è anche l’ultimo grande disco del gruppo, ne seguirà ancora uno con degarmo, poi la rottura, l’era tate e nulla sarà mai più come prima.

carico dalle aspettative post-‘empire’, ’promised land’ schizza al terzo posto su billboard ma crolla in pochi giorni, raggiungendo “solo” un disco di platino e di fatto deludendo un sacco di persone per cui il nuovo suono del gruppo risulta troppo spigoloso, cerebrale e indecifrabile. il tour è un mezzo flop nonostante il gruppo sia in gran forma e finisce che la emi minaccia di scaricarli, le cose si mettono male ed è solo l’inizio.

per fortuna possiamo fare finta di niente e tornare ad ascoltare ‘promised land’, ancora e ancora e ancora.

domenica 6 luglio 2025

queensryche, 'empire'

 


il paragone tra queensryche e metallica si può estendere ai primi anni ’90 quando entrambi i gruppi, dopo aver portato il proprio suono al suo estremo, scelgono la strada della melodia e della semplificazione, almeno strutturale.

se però la battaglia precedente era stata stravinta dai queensryche, ora ‘empire’ appare sfocato e un po’ confusionario se paragonato al ‘black album’.


quello che tate e soci fanno è eliminare ogni sovrastruttura dalla musica, basta concept o temi ricorrenti e giù di canzoni. il suono viene ulteriormente levigato e i riferimenti all’aor in generale e ai journey in particolare si fanno abbastanza espliciti, con un uso ancora più invasivo dei synth e una continua ricerca del ritornello ad effetto.

nei casi migliori queste canzoni sono dei piccoli capolavori che ribadiscono la classe dei queensryche, purtroppo però ‘empire’, come tanti suoi contemporanei, soffre di una prolissità eccessiva che tarpa le ali al disco intero. ‘resistance’, ‘hand on heart’ o ‘one and only’ sono pezzi che si dimenticano all’istante, assolutamente superflui e addirittura superati da alcune outtake dell’epoca niente male (‘last time in paris’, ‘dirty li’l secret’). vanno un po’ meglio ‘best i can’ e ‘the thin line’ poste in apertura ma se si pensa all’impatto delle aperture precedenti, anche questi due pezzi scompaiono un po’. pesa inoltre (questo anche sui pezzi belli) una certa fatica a staccarsi da suoni e arrangiamenti ancora fortemente legati al decennio precedente.


dicevo però che quando questa formula funziona, ne escono pezzi incredibili. ‘jet city woman’ e ‘another rainy night’ sono due pezzi aor perfetti, marcati a fuoco dal suono queensryche: i riff di degarmo sono inconfondibili, la sezione ritmica, più presente che mai in tutto il disco, è sempre capace di finezze esaltanti senza mai perdere il groove mentre la voce di tate è negli anni dell’apice assoluto, il timbro è maturato, la tecnica impeccabile e le doti di interprete cresciute a dismisura.

tutto questo è valido anche per i due momenti più alti del disco, ‘silent lucidity’ e ‘anybody listening?’. la prima è una ballata floydiana ariosa e morbida, condotta dagli arpeggi di degarmo, con una melodia attentamente costruita per dare modo a tate di sfruttare la sua estensione dal profondo baritono della strofa agli acuti del ritornello, il tutto coccolato dal morbido arrangiamento di archi di michael kamen. un pezzo emozionante e immortale che ha fruttato non pochi soldi al gruppo. ‘anybody listening?’ è, almeno per il sottoscritto, forse il pezzo più bello mai scritto dai queensryche. la struttura ricorda altri brani, strofa pulita, bridge in crescendo e ritornello che esplode, il fatto è che qui ogni parte è più ispirata che mai e curata a un tale livello che si resta a bocca aperta. la tensione che crea il bridge è indescrivibile, l’assolo è perfetto e tate regala forse la sua miglior prova di sempre.

resta ancora la stupenda ‘della brown’, con basso e batteria a prendere il sopravvento sulle chitarre nel fare da tappeto al bel racconto di geoff di una bellezza dei tempi andati. e non vogliamo parlare dei controtempi da capogiro di ‘empire’? il pezzo è uno dei pochi momenti prog del disco, con un intreccio ritmico che destabilizza continuamente, un riff pazzesco di chitarra e ancora tate mattatore.


purtroppo 63 minuti per arrivare a ‘anybody listening?’ sono veramente tanti e in mezzo c’è troppa roba inutile, se ne fosse durati 45 probabilmente staremmo parlando di un altro disco perfetto ma tant’è, di fatto ‘empire’ nel complesso è il disco più debole pubblicato fin qui dai queensryche ma è anche vero che la concorrenza è sleale. porta comunque il gruppo al successo mondiale (settimo posto su billboard, triplo disco di platino) e a un tour epocale in cui viene suonato finalmente tutto ‘operation: mindcrime’, come testimoniato sull’incredibile ‘operation: livecrime’. sarebbe stato bello avere anche il resto del concerto ma ad oggi non è stato pubblicato niente e, visti i rapporti odierni tra le parti, è molto molto molto difficile che succeda a breve. molto. comunque la soundboard della data all’hammersmith di londra è facilmente reperibile e suona discretamente bene.

tanti nuovi fan e tante nuove aspettative per un nuovo disco di ritornelloni e pezzi rock da arena. 

poveri illusi.