venerdì 17 giugno 2022

oren ambarchi, johan berthling, andreas werliin, 'ghosted'


oren ambarchi è uno che ha poco da dimostrare ormai, le sue collaborazioni con keiji haino, jim o’rourke, john zorn, charlemagne palestine, sunn o))), zu o merzbow parlano da sole e la lista sarebbe ancora molto lunga. il batterista andreas verliin e il bassista johan berthling hanno qualche anno in meno, vengono entrambi dalla svezia e da anni sono i sodali di mats gustafsson nei fire! e progetti correlati.

questi tre insieme si sono già incontrati più volte sia in studio che sul palco con risultati eccellenti (l’eccezionale ‘live hubris’ ad esempio, con anche gustafsson), eppure questa volta sono riusciti in qualche modo a superare se stessi: ‘ghosted’ è un piccolo gioiello strumentale di musica intelligente e perfettamente calcolata ma mai noiosa, fredda o distaccata, al contrario riesce continuamente ad avvolgere e affascinare senza mai scadere nel minimalismo “un tanto al kilo”.


il disco, registrato a stoccolma, è diviso in quattro movimenti, con i primi tre a fare da corpo dell’opera e il quarto che fa da coda. a parte per il quarto brano, tutto parte sempre da uno spunto ritmico attorno al quale i tre lavorano ossessivamente, con il contrabbasso a fare da perno. è musica che arriva evidentemente dal minimalismo degli anni ’60 ma non cade mai nella pretenziosità o in quella tendenza degli ultimi anni a svilire i concetti minimalisti con opere che sanno più di suggestione e fumo negli occhi che altro (no, non sto affatto pensando a pharoah sanders e floating points). è musica con una forte componente materica, i suoni si muovono attorno all’ascoltatore e lo trasportano nella stanza con i tre musicisti e oltre, lasciando che ci si perda nei continui cicli ritmici.

negli otto minuti del primo brano si fa notare la presenza di christer bolthén, veterano della scena jazz svedese attivo dagli anni 70 che qui suona il n’goni, uno strumento a corda del mali antenato del banjo con cui contrappunta il basso creando ulteriori strati ritmici e timbrici.

il secondo brano, nove minuti e mezzo, è basato su un giro di basso elettrico fatto solo di armonici, con un’ulteriore sovraincisione di note basse incastrate nel meccanismo in 7/8 in cui la batteria fa da metronomo sballato e la chitarra, amplificata tramite il leslie di un hammond per tutto il disco, fluttua tra gli spazi. 

l’apice però arriva con i sedici minuti del terzo movimento: su un lento 5/4, il trio gioca con minime ma continue variazioni, creando un gioco di specchi in cui partecipa anche l’inarrestabile giro di basso con una scrittura ritmica del pedale che spiazza invece di rassicurare. lo spazio sonoro è immenso, la batteria gioca tanto ritmicamente quanto melodicamente attorno al basso mentre gli interventi liberi della chitarra di ambarchi legano insieme tutta la musica portando ventate nebbiose e spettrali.

i cinque minuti di coda posti alla fine fanno da defaticamento, probabilmente anche per i musicisti: vengono in mente le lande deserte di ‘the bees made honey’ degli earth, un drone costante riempie gli spazi tra i lenti colpi di batteria mentre il leslie della chitarra satura l’aria, non c’è nessun meccanismo contorto e i tre musicisti sembrano prendersi questi cinque minuti per respirare.


tutta la musica sta perfettamente in equilibrio fra composizione e improvvisazione ma è da notare anche come riesca a evadere ogni ovvia categorizzazione: se il minimalismo arriva dal mondo classico, qui c’è una strumentazione rock, eppure di rock c’è poco e niente e il timbro ricorda più quello di un gruppo jazz ma, ancora una volta, mancano troppi elementi chiave (il solismo, per dirne uno) per chiamarlo jazz. sono composizioni modali che si muovono unicamente grazie all’interpretazione e al gusto dei tre musicisti, tre personaggi che hanno saputo interpretare una certa corrente moderna in maniera personale e convincente ma mai antipatica o supponente, veramente un gran disco.