venerdì 22 febbraio 2019

khanate, 'capture and release'



quando i khanate erano attivi, i loro dischi spesso venivano recensiti e definiti come ‘avanguardia’ metal. per come la vedo io, i dischi del quartetto sono un punto di arrivo e non di partenza.
andiamo indietro di una cinquantina d’anni abbondanti, tracciamo una linea che parte dagli episodi più rumorosi dei kinks e degli who, attraversiamo l’oceano e andiamo a new york da lou reed, spostiamoci a detroit e continuiamo la linea passando per mc5, stooges, death e grand funk, rifacciamo una capatina in inghilterra per presentarci ai black sabbath, andiamo a los angeles e portiamoci dietro germs e black flag, torniamo a new york e incontriamo glenn branca e i sonic youth poi torniamo sulla west coast per prenderci i melvins, altra gita in terra d’albione con napalm death e carcass e chiudiamo di nuovo negli usa con fugazi e slint. questa linea (incompleta ma non voglio scriverci un libro. non ancora.) segue l’evoluzione del rumore nel rock usato come strumento, ogni band fa un passo più avanti e scopre nuovi modi di interagire con il rumore e di usarlo per i propri fini. all’inizio abbiamo semplicemente un volume esagerato, poi iniziamo a sentire feedback e droni, poi arrivano le urla, l’uso totale degli strumenti, il deragliamento di ogni senso melodico/armonico e infine la dissoluzione. 
ma ancora non ci basta per capire i khanate, per questo dobbiamo prendere in considerazione un altro paio di elementi che si discostano da questa linea. il primo è sicuramente ‘trout mask replica’ di captain beefheart, croce e delizia della critica mondiale, capolavoro insuperato di astrattismo rock e silenzioso faro nel buio (insieme a certi residents) per una quantità incalcolabile di gruppi “d’avanguardia”.
poi bisogna considerare la deriva portata da ‘metal machine music’ di lou reed, apripista per il movimento drone che trova negli earth dei primi ’90 il suo apice. 
non si possono inoltre non citare i throbbing gristle, gruppo che non è mai stato propriamente rock ma che ha fatto dell’utilizzo di rumore, distorsione e droni una vera bandiera, scardinando ogni regola musicale e shockando il mondo.
per chiudere, torniamo all’inizio di tutto. nel suo periodo di nascita, il blues era ben lontano dalla codificazione che ne diamo oggi, quelle 12 misure e 3 accordi che diamo per scontate. all’inizio i bluesman erano intrattenitori e non lontani da certe forme di cabaret musicale, intrattenevano con storie e con l’accompagnamento musicale sottolineavano la narrazione. queste storie erano spesso dolorose e tristi e l’espressività dei musicisti le rendeva uniche. come sappiamo, dal blues sono nati il rock 'n’ roll e poi il rock.

i khanate sono un punto d’arrivo, si diceva. attivi tra il 2001 e il 2006, breve reunion nel 2009, sono in 4 e si chiamano alan dubin (voce, o.l.d., gnaw), stephen o’malley (chitarra, sunn O)))), james plotkin (basso e synth, o.l.d., scorn, mick harris) e tim wyskida (blind idiot god).
non è difficile trovare nei latrati di alan dubin lo stesso dna che scorreva nei blues di new orleans (storie dolorose che fanno perno sull’espressività dell’artista), così come è evidente come la musica segua di pari passo le sue parole. allo stesso tempo le sue urla arrivano dagli o.l.d., efferato e delirante esempio di grindcore, quindi ci si allontana decisamente dal blues per entrare nel mondo delle urla sguaiate. siamo a un livello di dissoluzione musicale assoluto, nessuno dei tre campi (ritmica, melodia e armonia) si muove secondo i canoni e l’astrattismo colorato e straniante di ‘trout mask replica’ si fa incubo nero come la pece. 
se non si fosse intuito, i khanate fanno parecchio rumore, la loro vera arma però non è questa ma è il silenzio. hardcore, grindcore, heavy metal, sono tutte forme di rock estremo che tendono a dimenticare il vuoto e a crogiolarsi in un horror vacui che ha un suo preciso senso (soprattutto se ridotto nella durata come la maggiorparte dei dischi di questi generi). la musica dei khanate vive di continue esplosioni ed implosioni, vuoti pneumatici che diventano inferno sonoro in una frazione di secondo, sospensioni da tachicardia infrante dalla voce lancinante di dubin, è un espressionismo sonoro che fa dell’angoscia e della paura i suoi perni espressivi.
la chitarra di o’malley ha uno dei suoni più riconoscibili al mondo, le sue sferzate soniche nei sunn o))) vengono qui immerse in un contesto ancora più terrificante e risultano più incisive che mai, legate al tono slabbrato del basso immenso di plotkin che si occupa anche di effetti e distorsioni digitali che rendono il tutto ancora più gelido; wyskida qui non fa propriamente il batterista ma suona la batteria, sottile differenza per indicare come la sua prestazione sia totalmente slegata dai canoni ritmici dello strumento (e della musica in generale) ma segua invece il flusso magmatico creato dal gruppo.
nessuno strumento risalta, anche la voce ben presto diventa un timbro come gli altri, parte di una tessitura sonora che non ha simili. lo stesso livello di violenza, insidiosità e “disturbo” si può trovare nei today is the day di steve austin ma in una declinazione molto differente: per quanto passi dagli stessi riferimenti, austin tende a far risaltare altri aspetti e raramente si slega dalle convenzioni ritmico/armoniche fino a questo punto.

‘capture and release’ (2005) è composto di due tracce (‘capture’ e ‘release’, appunto), una di 18 e una di 25 minuti; tutto quello che ho detto finora si ritrova qui al suo massimo “splendore”, incorniciato in un contesto che esalta ulteriormente la tensione vuoto/pieno di cui questa musica si ciba. non che gli altri dischi siano molto da meno (questo è il terzo ed ultimo, prima ci sono ‘khanate’ e l’eccezionale ‘things viral’ mentre ‘clean hands go foul’ è una raccolta di outtakes postuma) ma qui il disegno è perfettamente nitido e compiuto, difficile immaginare un modo per andare oltre.

infatti il gruppo si scioglie, dubin fonda gli gnaw, o’malley continua coi sunn e plotkin coi suoi vari progetti mentre wyskida passa ai jodis (ancora con plotkin) prima di tornare nei fenomenali blind idiot god.
non è un ascolto per tutti, questo è poco ma sicuro; se però vi interessa sapere fino a che livello di efferatezza possa spingersi il rock, provate a ripercorrere la linea tracciata all’inizio e concludere con l’ascolto di questo album. vi sarà evidente come i khanate siano (stati) un punto di non ritorno di un intero genere musicale.