lunedì 8 novembre 2021

low, 'hey what'

tornano i low a 3 anni di distanza da un disco che ha spezzato le gambe un po’ a tutti, quel ‘double negative’ che è stato incensato a ragione dalla critica tutta ma che per molti è stato ostico da digerire, con la sua costante tendenza ad un’atonalità aliena fatta di frammenti di suono sparsi nel vuoto.

la devastazione sonora (attivamente distruttiva) di quel disco lascia ora il posto alla contemplazione di fantasmi e riverberi di un passato che va ben oltre quello della band stessa, come testimoniato dalle inflessioni country/west coast che ogni tanto animano le armonie vocali.

i low prendono le idee del disco precedente e le riportano sulla terra in una versione più umana; semplificata, potrebbe dire qualche lingua velenosa, ma si sbaglierebbe: ‘hey what’ non è un disco semplice, neanche nei suoi momenti più immediati, è piuttosto un ritorno alla visceralità delle emozioni e ad una consequenzialità un poco più canonica della musica. 


prendiamo come esempio ‘white horses’, posta in apertura: il pezzo sfoggia melodie perfette, esaltate dall’intreccio tra le due voci, su un tappeto digitale fatto di distorsioni che avvolgono completamente l’ascoltatore in un’esperienza che va ben oltre il mero livello uditivo. c’è un continuo ondeggiare di suoni per tutto il disco, suoni distorti, alieni, ora inquietanti, ora avvolgenti, arrangiamenti minimali che sembrano provenire dal futuro ma che le voci riportano spesso e volentieri ad un passato fatto di country, americana e west coast, come in ‘disappearing’, un brano mozzafiato che sembra attingere da una certa epica di neil young. il gioco con timbri, compressioni e stratificazioni è stupefacente e arriva dritto all’anima, al contrario dell’algida cerebralità (che non è un insulto) di ‘double negative’.

‘hey’ è un altro piccolo miracolo, un pezzo in cui in un tappeto ambientale sintetico si possono sentire la rarefazione dei talk talk, il gelo di certa elettronica o jazz nordici e pure qualche ombra di kate bush, specialmente nel gusto melodico dal fondo 80s. che dire poi di ‘days like these’, la melodia da sola potrebbe reggere il pezzo, in più c’è un arrangiamento fatto di saturazioni animali, suoni che sono un pugno allo stomaco e addirittura una chitarra solitaria che sembra quasi una parodia, sempre rigorosamente senza alcun tipo di percussioni. 

discorso simile per ‘more’ che in soli due minuti riesce a riassumere un po’ tutto l’album, prima di versarsi in ‘the price you pay’, colpo di coda finale, inzuppato in un emozionalità mai melensa o scontata, cresce fino a diventare quasi un pezzo rock (con una vena depeche mode), con addirittura l’unica batteria di tutto il disco a dare ulteriore profondità all’ultimo crescendo che vi strapperà definitivamente l’anima.


se bisogna puntare il dito su un difetto, posso dirvi che il packaging non è certo dei più lussuosi: un digipack gatefold con il cd in una busta con titoli e credits, senza testi o altre immagini, decisamente un po’ poco per un disco così profondo e ricercato.

se non si fosse capito, siamo di fronte a un altro disco pazzesco. i low riescono ad imparare da se stessi e a riportare le idee di ‘double negative’ ad un livello più umano, aiutati in questo da un’ispirazione evidentemente ancora a livelli altissimi che permette al duo di scrivere melodie memorabili su cui basare i brani. 

che possano continuare per sempre.