domenica 12 ottobre 2025

il fondo del barile #4: queensryche, 'dedicated to chaos'

 


quanto male può finire una storia?

noi che si ascolta il rocchenrol ne abbiamo sentite di ogni, vero? dovremmo essere abituati. eppure c’è qualcosa di veramente perverso nel modo in cui si è conclusa la vicenda dei queensryche. perché di fatto la storia del gruppo finisce dopo questo disco con l’abbandono di tate, quello che è successo dopo da entrambe le parti non ha niente a che vedere con il nome del gruppo. capiamoci.

ci arriveremo a suo tempo, per ora occupiamoci di ‘dedicated to chaos’, l’ultimo disco dei queensryche.


tate ne parla prima dell’uscita come un nuovo ‘empire’, che tiene conto dei suoni moderni e cerca di essere una raccolta di canzoni idealmente inseribile nello shuffle di qualsiasi dispositivo. un altro modo per dirla è “una raccolta di canzoni a cazzo di cane che vanno un po’ di qua e un po’ di là con qualche momento molto bello”.

cazzate a parte, quello che tate dice suona più come una giustificazione per un disco che, pur contenendo qualche gran momento, non ha né capo né coda.

l’iniziale ‘get started’ sembra una outtake di ‘q2k’ ed è tutto dire, la seguente ‘hot spot junkie’ suona invece come uno scarto di ‘tribe’. sempre di scarti stiamo parlando, per altro dai due dischi peggiori della discografia. ‘got it bad’ prosegue la linea con una semi-ballata con tremendi accenni psichedelici in un sitar totalmente fuori contesto e qualche chitarra al contrario messa lì tanto per, viene da ridere e dopo soli tre pezzi si vorrebbe togliere il cd e buttarlo dalla finestra ma la cosa peggiora. 

facciamo così, ridiamo insieme. in ‘drive’ il basso prende una linea che in sé non è nemmeno male, peccato che tate ci costruisce sopra una super produzione vocale con effetti e campionamenti da pop moderno per arrivare a un ritornello atroce con chitarrine alla u2 di sfondo. state ridendo? io un sacco. 

ovviamente non vogliamo privarci della special edition di una tale opera, per cui vi posso dire che ‘i believe’ è la stessa identica canzone di ‘drive’ ma non ha nemmeno la linea di basso figa. cioè in realtà ce l’ha perché questo, per assurdo, è il disco in cui potrete sentire meglio il basso di eddie jackson (sempre che l'abbia suonato davvero lui, non ci è dato saperlo), prominente nel mix in quasi tutti i pezzi, è la cosa migliore dell’album probabilmente. però per il resto il pezzo fa schifo. di ‘luvnu’ penso possa bastare il titolo, se volete farvi del male ascoltatela pure, invece ‘wot we do’ non è una bonus track, c’è della convinzione dietro a questo mostro che mette insieme linee funky rock con campionamenti da hip hop, effetti vocali e produzione vocale da alta classifica. purtroppo però in copertina c’è scritto “queensryche” e il risultato può farvi ridere o vomitare o vomitare dal ridere, vedete un po’ voi. ‘hard times’ è un’orrenda ballata con un ritornello che vorreste prendere a pugni.


basta, non mi va neanche di infierire, parliamo del poco di buono che c’è qua in mezzo, che fondamentalmente vuol dire due pezzi, ‘at the edge’ e ‘big noize’. la prima suona effettivamente come un pezzo dei queensryche, viene da pensare che arrivi dalle sessioni per ‘american soldier’, ha un bel riff, atmosfera scura e un bello sviluppo, per quanto la sovra-produzione vocale appesantisca troppe parti e nella parte centrale si perda in qualche cazzate di troppo. ‘big noize’, nonostante il titolo, è un altro pezzo che suona indiscutibilmente queensryche, anche se sempre di quelli moderni. ha qualche vaga ombra di ‘promised land’, un gran bel basso sempre davanti, una manciata di belle melodie vocali, qualche buon arrangiamento di chitarra e un bel ritornello.


con ‘addicted to chaos’ si tocca il fondo, anche i pezzi belli non valgono l’ascolto di tutta questa merda, qui è dove tate veramente perde di vista il confine tra se stesso e il progetto, porta in giro per l’america un tour cabaret con tanto di ballerine e mangiafuoco e infine cade per sua stessa mano quando il resto del gruppo decide di licenziare sua moglie e figlia, manager rispettivamente della band e del fan club, poiché sentono che ormai la band è una proprietà della famiglia tate. la cosa ovviamente degenera, al punto che durante uno degli ultimi concerti del gruppo tate e rockenfield si sputano addosso durante i pezzi, sceneggiate da bambini finché gli altri non decidono di allontanare tate dal gruppo.

ma ovviamente non si può allontanare geoff tate dai queensryche, nessuno può, la sua voce è unica e il suo contributo alla band, nel bene o nel male a seconda dei momenti, è mostruoso. ne seguono cause, un momento in cui addirittura esistono due queensryche che fanno dischi uno più brutto dell’altro: tate prosegue i suoi deliri, gli altri assumono un suo clone (todd la torre dai crimson glory, se non lo sapete lo scambierete per tate all’istante) e tornano a suonare ‘queen of the reich’ come se fosse il 1984 fino a quando anche rockenfield non dice basta e la torre si ritrova a sostituire pure lui, almeno su disco. scegliete voi chi vi fa più ridere ma di fatto nessuna delle due parti dovrebbe usare quel nome. non dovrebbero nemmeno volerlo, per logica.


e così la saga durata 30 anni di uno dei gruppi che ha saputo essere più intelligente, profondo e unico nella storia dell’heavy americano se non tutto, si conclude in farsa con gente che suona insieme da decenni a sputarsi addosso sul palco e un disco inutile quando non offensivo come ‘dedicated to chaos’. la storia dei queensryche avrebbe meritato ben altra fine.

domenica 5 ottobre 2025

queensryche, 'american soldier'

 


dopo il successo di ‘mindcrime 2’ e del seguente tour, in cui i queensryche suonavano per due ore e mezza eseguendo entrambi i capitoli nel concept per intero, l’ego di geoff tate è a livelli preoccupanti. per fortuna riesce a renderlo utile con un nuovo progetto chiamato ‘american soldier’, per il quale passa mesi a intervistare veterani, reduci e famiglie di soldati che non sono tornati, cercando di mettere insieme una figura che possa rappresentare la tragicità e complessità della figura del soldato negli anni 2000. un’altra grande fortuna è che lo stesso tate sia abbastanza ispirato da comporre una buona quantità di ottimo materiale che prende forma ne 12 pezzi di ‘american soldier’.


mike stone è di nuovo fuori dal gruppo, forse, sta di fatto che le chitarre qualcuno dice le abbia suonate tutte wilton, qualcun’altro che buona parte le abbia suonate ancora slater, di nuovo in produzione. importa poco, lo stato di salute del gruppo come insieme di amici è evidentemente pessimo ma il disco che ne esce è sorprendentemente buono, nonostante l’ennesima produzione discutibile e pessimo mix, di nuovo di kelly gray. le chitarre clippano quasi costantemente, la batteria è compressa oltre ogni dire e mixata a caso, la voce non molla un secondo l’overdrive.

se qua e là ci si perde un po’ nell’anonimato (‘sliver’ o ‘unafraid’, non certo il più grande inizio mai sentito), altrove si azzeccano dei pezzi da 100, come la strepitosa ‘hundred mile stare’, epica e profonda, fa pensare che tate abbia trovato finalmente il modo di raggiungere (quasi) l’intensità dei dischi storici. ‘at 30 thousand ft’ poteva tranquillamente stare su ‘mindcrime 2’, una ballata molto teatrale che nel ritornello si apre in un riff che ricorda da vicino gli anni d’oro dei ryche e si fa metal paranoico per l’assolo centrale mentre ‘a dead man’s words’ riprende alcune suggestioni mediorientali di ‘tribe’ per portarle nel deserto dell’aghanistan; è un altro buon pezzo con qualche bel riff e un clima asfissiante, anche se il testo non è certo un’opera d’arte.


purtroppo la seconda metà del disco crolla nettamente, con una manciata di canzoni che si dimenticano all’istante, due pessime ballate (‘remember me’, una vaccata strappalacrime da romanzo harmony, e ‘home again’, una schifezza sdolcinata in cui tate duetta con sua figlia, agghiacciante) e un solo pezzo degno di nota, il bel singolo ‘if i were king’ che riporta a quel poco di buono che c’era in ‘q2k’ ma riesce ad elaborarlo in modo molto più convincente con piglio epico e un gran bel ritornello.


in fin dei conti non è affatto male ‘american soldier’. quasi tutta la prima metà sta sopra la sufficienza, si potevano tagliare una ventina di minuti e renderlo molto più compatto ma tant’è, pur senza la baracconata del concept precedente riesce ad essere un disco coeso e con una sua personalità. che poi sia la personalità di geoff tate e non dei queensryche è tutta un’altra storia.