è il 1972. ad oggi neil
young è un cantautore più famoso per la sua partecipazione al
grande progetto crosby, stills, nash & young che per i suoi
dischi. i quali però, per quanto siano solo tre, vedono già le
ottime promesse dell'omonimo debutto (come il gioiello the last trip
to tulsa) puntualmente esaudite dal successivo everybody knows this
is nowhere, pietra miliare del country-rock e del rock tutto, fucina
di classici senza tempo quali down by the river o cowgirl in the
sand. che dire poi di after the gold rush, sunto perfetto della
poetica ed estetica di tutto young: già vi si trovava dalle delicate
ballate d'autore come birds o after the gold rush alle sfuriate
elettriche come southern man e tutto imbevuto in un tessuto sonoro
onirico e scazzato, su cui svetta la voce inconfondibile del
canadese. che la si ami o la si odi, non si può non riconoscere che
la sua particolare timbrica renda automaticamente qualsiasi cosa da
lui cantata unica e personalissima. detta facile facile: non è
meglio o peggio, è semplicemente diversa da qualsiasi altra e per
questo non ce la si dimentica.
1.time fades away
è il '72 dicevo. esce
harvest e neil young viene catapultato in cima alle classifiche
grazie a heart of gold, gioiello di dinamiche e svacco pastorale che
è ad oggi il suo unico singolo che abbia raggiunto il numero uno.
grazie anche a heart of gold, harvest vende uno scatafanculiardo di
copie e viene programmato un tour per portarlo in giro nel '73.
durante le prove però qualcosa non va: danny whitten, chitarrista
originale dei crazy horse che si sarebbe aggiunto agli stray gators
per il tour, è fatto di eroina fino a non ricordarsi come si suona e
young è costretto a licenziarlo dal gruppo. poco dopo viene
ritrovato morto pieno di overdose e inizia a tremare tutto.
durante il tour neil vuole
portare in giro canzoni inedite con l'idea di registrare un live come
nuovo disco. però si trova anche molto poco a suo agio con la
celebrità e la fama e si rifugia sempre più volentieri in alcol e
droga; automaticamente la voce inizia a risentirne e l'atmosfera dei
pezzi assume connotati molto grevi e minacciosi. inoltre si
sviluppano delle tensioni col batterista kenny buttrey, già su
harvest, il quale si sente mortificato dai continui commenti
post-concerto di young, perennemente ubriaco di tequila, che lo
sostituisce con johnny barbata, già con turtles, jefferson airplane
e csny, nel bel mezzo del tour. in più, proprio grazie al suo amore
per il nettare messicano, neil sviluppa un'infezione alle corde
vocali, così, a dar man forte nelle ultime date, si aggiungono david
crosby e graham nash con chitarra e le loro voci uniche.
peccato che il pubblico,
accorso per sentire le ballate bucoliche di harvest, non apprezzi
troppo i nuovi brani, scuri, sgraziati e violentemente elettrici.
time fades away è il
risultato delle registrazioni durante questo tour e tutto quello che
ho appena detto, che per logica dovrebbe penalizzarlo duramente, lo
rende un capitolo unico nella sconfinata discografia del loner, tanto
che lui stesso lo ritiene il suo disco peggiore e ad oggi non è mai
stato ristampato ufficialmente in cd.
il primo capitolo della
ditch trilogy non è certo di facile ascolto se si è abituati ai
precedenti discografici di young: nei suoi otto episodi suona lercio,
ruvido, nero profondo e violento, anche nei momenti più tranquilli
la tensione è sempre palpabile e la precaria condizione dei
musicisti rende tutto traballante e instabile. ecco, i musicisti: ben
keith (autore di interventi sublimi) alla pedal steel e slide guitar,
tim drummond (musicista pazzesco per duttilità e gusto, primo bianco
nella band di james brown) al basso, jack nitzsche al piano (molto
più convincente in questa veste che in quella di produttore) e,
appunto johnny barbata alla batteria, già presente in tanti tanti
album fondamentali di quei tempi.
la title-track che apre il
disco esplode in un curioso mutante folk-punk feroce e velocissimo
che parla del non andare da nessuna parte nella vita, subito
contrastata dall'idillio del passato dorato nell'acustica journey
through the past, la cui composizione risale al '71, nella quale la
voce di young arriva a sembrare una supplica verso il tempo, sdraiata
sugli accordi barcollanti del piano. ma yonder stands the sinner
torna subito in territori aspri con la chitarra di crosby ad
arricchire l'impatto del brano e un cantato rabbioso ed abbaiato.
l.a. si presenta cattiva ma rivela poi un animo più che altro
sconsolato nelle sue visioni metropolitane di un'apocalisse
incombente.
discorso a parte per la
toccante love in mind, ballata di soli due minuti anch'essa risalente
al '71, in questo caso anche nella registrazione. il suo feeling
però, ispirato dalla distanza forzata dai cari durante i tour, è
perfettamente inserito nel concept del disco e risalta come un'oasi
di bellezza tra lo sconforto di l.a. e la successiva don't be denied,
ovvero uno dei due pezzi grossi di time fades away.
qui infatti la “vecchia”
formula jam viene adattata all'umore grigio della musica (in futuro
questa formula verrà perfezionata fino a powderfinger o cortez),
mentre il testo parla di sogni rincorsi e del sudore che scorre per
realizzarli, senza mai perdere di vista l'obiettivo. questo
contrasto, unito alla voce distrutta di neil, crea un'atmosfera
straniante, indescrivibile a parole. così come lo è l'intimità
disarmante di the bridge, ballata profonda che non avrebbe sfigurato
su gold rush.
come concludere in
bellezza a questo punto? richiamando crosby e nash e sfoderando la
disperata e durissima last dance, sferzata sull'alienazione della
vita moderna, perfettamente dipinta in quel lunedì mattina con cui
si apre il testo. poi sul palco parte la jam, le chitarre si
intrecciano, poi tornano le voci ad incrociarsi e la melma prende
definitivamente forma in una canzone da ascrivere negli annali del
rock: così tanto sudore non si sente spesso.
il disco, tralasciando i
commenti del suo autore, venne accolto bene dalla critica che
apprezzò la volontà di rinnovarsi di young e anche i fan non
sembrarono disprezzare ma nonostante ciò ancora oggi, a 41 anni
dalla sua pubblicazione, time fades away non esiste in cd (sebbene
sia abbastanza facile reperirlo ad un buon prezzo in vinile, scelta
comunque consigliata) né ne è mai stata fatta una ristampa di alcun
tipo (anche se c'è movimento in tal senso in previsione del secondo
archive box che dovrebbe coprire il periodo 72-82, ovvero UN SACCO DI
FIGATE che però non si sa se e quando uscirà, pur essendo stato
promesso ormai da qualche anno).
a parte tutto questo, time
fades away è stato l'ingresso di young nel tunnel degli anni 70 e il
primo di una trilogia di dischi che esplorerà ogni possibile
sfumatura del dolore umano.
2. tonight's the night
danny whitten è morto.
carrie snodgress (l'attrice di cui parla a man needs a maid e con cui
young stava) se n'è andata. ora anche bruce berry, amico e roadie di
young, muore per overdose. il clima è estremamente cupo e
l'ispirazione di neil arriva per questo a quello che è forse il suo
picco massimo: tonight's the night, ovvero IL disco sul dolore umano.
dopo la disfatta del tour
del '73, young decide di formare una band ibrida: chiama la sezione
ritmica dei crazy horse e ci unisce nils lofgren al piano e ben keith
alla steel guitar. una volta battezzato il gruppo come santa monica
flyers, riunisce tutti agli studio instrument rentals di hollywood e
fa cominciare il delirio. le cronache vogliono che facesse presentare
i musicisti in studio nel tardo pomeriggio e, tutti insieme,
iniziassero a farsi di tequila ed erba fino ad essere completamente
sfatti e a pezzi. a quel punto, verso le 3 di notte, cominciavano a
registrare i pezzi.
è evidente fin da qui
come quest'album abbia rappresentato per il canadese un modo di
esorcizzare quello che lo opprimeva, di staccarsi completamente da se
stesso per poter analizzare ciò che non andava. “bruce berry was a
working man, he used to load that econoline van” sono le prime
parole che ci rivolge e l'intensità è subito alle stelle: la voce
di young è distrutta, tremante, arrabbiata, rassegnata, sempre
sull'orlo di spezzarsi, cosa che avverrà in molti momenti del disco.
quello che infatti non bisogna fare con tonight's the night è andare
a cercare la perfezione in un album che la rifugge esplicitamente.
vuole suonare grezzo e genuino e questo è il modo migliore per
farlo. tanto che la reprise si rifiuta di pubblicarlo e tira in lungo
i tempi. l'album infatti, registrato nel tardo '73, non vede la luce
fino al '75, quando ormai young ha già pubblicato il seguito on the
beach ed ha già scritto altri due dischi. ma nel momento di
scegliere cosa pubblicare, una sera con gli amici rimette su
tonight's the night e il verdetto è univoco: deve assolutamente
pubblicare quel materiale (sembra che rick danko dei the band sia
stato uno dei più accaniti sostenitori).
e allora torniamo anche
noi al disco. dopo la straziante apertura, la title track si evolve in
un rock boogie sporco e trasandato con un suono d'insieme lercio ma
intensissimo, così come lo è il blues ubriaco di speakin' out, il
modo migliore per esprimere la non-voglia catatonica che porta a
stare seduti sul divano a guardare la vita che va avanti.
torna poi il conflittuale
rapporto di neil con la fama in world on a string, con suo incedere
inarrestabile: puoi essere il più ricco e potente uomo al mondo ma
non puoi scappare dal sentire o dal soffrire (“the world on a
string doesn't mean a thing, it's only real in the way that i feel
from day to day”). e poi arriva il primo apice del disco. potrei
stare per ore a parlarvi di borrowed tune, della maestria con cui il
testo si altalena tra speranza e disillusione, della toccante
immagine di young solo in una stanza, talmente ubriaco da dover
rubare una melodia degli stones, della semplicità disarmante
dell'armonia... eppure tutto quello che riesco a pensare ogni volta
che la sento è come faccia quella voce da sola ad esprimere tutto
ciò che c'è di fragile nell'umanità, visto con gli occhi di un
dolore tanto forte da rendere insensibili. indescrivibile.
a seguire troviamo quello
che lì per lì può sembrare un semplice divertissement, ovvero come
on baby let's go downtown. non fosse che questa canzone arriva dalla
registrazione di un concerto dei crazy horse al fillmore east nel
marzo del '70 (poi pubblicato per intero nella serie archives) ed è
cantata proprio dal defunto danny whitten, un tributo sentito che
riesce anche a spezzare per un attimo la drammaticità del disco.
per un attimo.
poi arriva mellow my mind
e le nubi si fanno grigie come non mai. giro blues deviato,
arrangiamento scarno ma pieno da cui escono poetica la steel di keith
e sublimi gli appoggi di piano di lofgren sul ritornello. poi, su
tutto, quella voce. quella voce che qui si spezza, si rompe, urla,
stecca, sente e fa sentire, più che cantare. questo è uno dei
momenti più intimi e personali che l'arte di young abbia mai
toccato, non c'è divisione tra arte e realtà, tra artista e
narratore, non c'è nessuna distanza: lui è lì e il dolore è reale
quando chiede disperatamente di anestetizzargli la mente.
finisce così la prima
facciata e la dose è già stata sufficiente a stendere chiunque.
forse proprio per questo
si riparte con roll another number for the road, numero country che
recupera le sonorità di harvest ma le travisa con l'alcol e l'erba,
mostrando come quelli che erano tra i simboli della love generation
si trasformino oggi in semplici mezzi di autodistruzione.
meglio allora andarsene
veramente, lontano, dove ancora si può forse vivere una vita
normale. albuquerque è una buona scelta, nonché probabilmente uno
dei 3 pezzi più belli mai scritti da young. è un rock psichedelico
che si culla nel sogno di un luogo in cui un uomo possa esistere
senza le complicazioni della vita moderna e della fama, retto a prima
vista dalla ritmica strascinata di molina ma in realtà costruito sui
divini interventi di lap steel di keith e dal fraseggio morbido e
rilassato di lofgren al piano. è un capolavoro nel capolavoro che dà
il la a molti brani successivi quali cortez the killer. poi rischio
seriamente di ripetermi, ma un uno-due così si è visto raramente
nella vita: a seguire arriva new mama, pezzo che avrebbe potuto
finire su un disco dei csny per le sue ricche e vibranti armonie
vocali, immersa in un sogno probabilmente dettato dalla droga in cui
per un secondo tutto il dolore si dissolve.
si ripiomba poi nella
fogna col la lercia lookout joe, registrata live durante il tour da
cui time fades away, recupera infatti quel feeling abrasivo e lurido,
grazie anche al ritorno degli stray gators solo per quest'occasione.
e si va così a finire in
quel punto di non ritorno che è tired eyes, il delirio di un
disperato: nel testo si mischiano eventi reali (un massacro per droga
a topanga canyon) insieme a dialoghi inventati con personaggi
inesistenti e a suppliche divine nella speranza di resuscitare i
morti e togliersi dalle spalle tutta quella sofferenza. l'andamento è
mesto e profondo, monotono ma reso vivo dai continui fraseggi della
superba band mentre young snocciola il suo testo delirante. (cazzata:
tra le immagini di stragi per droga nel deserto di questo testo e la
coincidenza di avere una canzone chiamata albuquerque... che qualcuno
tra gli autori di breaking bad sia un fan?)
non si può quindi che
ritrovarsi al punto di partenza, col reprise di tonight's the night a
far ricominciare tutto il ciclo purificatore, dal dolore alla rabbia
all'incoscienza al risveglio, un altro giorno, con ancora lo stesso
dolore dentro e ancora la stessa voglia di annullare tutto ciò che si è, pur di non dover più sentire.
3. on the beach
come si diceva, la reprise
“prende tempo” e lascia tonight's the night nel cassetto delle
cose da fare. così neil si ritrova con un disco pronto che
però non può pubblicare. la soluzione? ne scrive un altro.
nel tornare ad una formula
più pulita, sia nella registrazione che nell'esecuzione, produzione
ed arrangiamento, young realizza un opera ambigua e tremendamente
affascinante. ambigua perché nel suo tendere ad uno spiccato
isolazionismo (see the sky, revolution blues, ambulance blues), on
the beach esprime sia la disillusione personale del cantautore che
quella di tutta l'america allo sbando negli anni '70 che, dopo la
sbornia di peace and love di fine '60, si ritrova sull'orlo del
baratro con una guerra finita in tragedia e i conti da fare con la
distruzione che ha portato, dall'economia statale alla condizione dei
reduci che tornano a pezzi dal vietnam.
ancora una volta le droghe
giocano un ruolo fondamentale, questa volta è il turno degli “honey
slides”, una poltiglia di miele ed erba che movimenta le sessioni
di registrazione, anche se forse “movimenta” non è il termine
adatto.
walk on attacca su tutti i
fronti: risponde ai lynyrd skynyrd, parla ai critici ed apre il disco
con un mood alieno, incorniciato in modo perfetto nella splendida
copertina dell'album, ma è see the sky about to rain, impeziosita
dal wurlitzer di graham nash, a portarci veramente nell'atmosfera
cupa e rassegnata del disco. eppure è impossibile non notare come
questa volta il flusso sia molto meglio controllato e coeso, anche se
non sempre sui livelli di intensità dell'illustre predecessore. in questo caso comunque lo è, recuperando questa vecchia composizione che si inserisce perfettamente nel disco, coi suoi cieli grigi che incombono.
la rabbia esplode e regna
sovrana nell'epica revolution blues, ispirata agli avvenimenti legati
a charles manson. raramente la cattiveria umana è stata espressa
meglio: “remember your guard dog? well, i'm afraid that he's gone.
it was such a drag to hear him whining all night long”. non c'è un
attimo di tregua, non un secondo di umanità nel delirio malefico di
un pazzo: “i see bloody fountains and ten million dune buggie
comin' down the mountains. i hear that laurel canyon is full of
famous stars, well i hate them worse than lepers and i'll kill them
in their cars”. per quanto controverso possa essere l'argomento,
non si può non riconoscere la perfetta riuscita di uno dei pezzi più
incazzati e sbagliati mai scritti, cavalcato da una chitarra mostruosa.
for the turnstiles sembra
alleggerire i toni, col suo arrangiamento di dobro e banjo. nasconde
in realtà un testo fortemente pessimista nel quale ogni uomo,
qualsiasi sia la sua professione, credo o conto in banca, è sul
cammino verso una morte solitaria ed inevitabile.
in chiusura della prima
facciata troviamo vampire blues, scagliata contro l'industria del
petrolio e i danni che arreca alla terra. non è uno dei brani
migliori del disco ma si fa apprezzare per il suo feeling live e
jammato su un classico giro blues. un attimo di riposo prima che la
seconda facciata mostri veramente di cosa è fatto on the beach.
è la title-track a
riaprire i giochi e non ha nessuna intenzione di farlo in leggerezza. la depressione la domina per tutti i suoi 7 minuti di durata,
una coltre grigia e spessa che copre ogni prospettiva, unita
all'isolazione di cui si parlava all'inizio. “i need a crowd of
people but i can't face them day to day” è la frase emblematica:
nella sua semplicità incarna tutti gli aspetti e temi del disco. la
monotonia degli accordi si trascina, rotta dall'inaspettata apertura
di un “ritornello” inesistente e poi riportata subito in primo
piano, come nel lancinante assolo di chitarra posto proprio in mezzo
alle strofe. “now i'm living out here on the beach but those
seagulls are still out of reach”: si torna a quella copertina
desolata e desolante, alla pesantezza dell'essere, al bisogno e
desiderio di scappare in un luogo che però non esiste. non c'è
niente da salvare perché non c'è più niente, se non una delle
canzoni più laceranti mai scritte.
motion picture è un gioco
di specchi, neil guarda il televisore e il televisore gli risponde
con storie di sogni e ricchezza mentre il suo unico desiderio è di
sparire e tornare ad una vita più semplice, pur avendo già
raggiunto quegli obiettivi che il mondo gli impone. la canzone è
deliziosamente accompagnata alla chitarra acustica e percussioni
“casuali” che lasciano sentire alla perfezione il bozzolo di
sogni ed illusioni di questo momento.
ed eccoci qui. la fine
della facciata, del disco e della trilogia, il momento in cui tutto
assume senso: ambulance blues.
con buone probabilità si
tratta del brano migliore di tutta la trilogia, sotto ogni punto di
vista: il testo, al limite del flusso di coscienza, va
dall'autobiografico nell'analizzare vittorie e sconfitte della vita (“back
in the old folky days the air was magic when we played. the
riverboat was rockin' in the rain”) al sociale, toccando argomenti come nixon (“i never knew a man
could tell so many lies, he had a different story for every set of
eyes”), il rapimento di patty hearst e tutto ciò che ne conseguì,
senza dimenticare di dare una frecciatina ai critici ed un colpo di
gomito ai compari crosby, stills e nash. questo sproloquio è
accompagnato da chitarra acustica, percussioni, il basso di rick danko ed un violino
indimenticabile (opera di rusty kershaw), autore di interventi melodici da pelle d'oca. la
melodia della voce è invece liberamente ispirata a quella di needle
of death di bert jansch, cantautore americano al quale young è molto
affezionato. il risultato finale è annichilente, un brano perfetto
in ogni suono, ogni sillaba, ogni nota; isolato ma con una finestra
sul mondo che ogni tanto si può anche aprire, disperato ma anche
rassegnato a questa condizione, in flusso libero ma con il controllo
dei propri movimenti, un'altalena continua che diventa nuova
condizione stabile da cui poter ricostruire il mondo, la vita e tutto
il resto.
quello che succederà dopo
questi tre dischi avrà del miracoloso: da questa condizione neil si
risveglia nel migliore dei modi, riformando i crazy horse e
ripartendo da zero con zuma, disco decisamente più solare contenente
alcuni brani epocali come la già citata (più volte, non a caso) cortez the
killer o danger bird, per poi proseguire con rust never sleeps e i
disconi che gli stanno attorno. ascoltando questa ditch trilogy
riesce difficile pensare che un uomo possa uscire da un baratro così
profondo. la rabbia di time fades away, il dolore di tonight's the
night e la rassegnazione desolata di on the beach sono un percorso
umano che tutti conosciamo. neil young, senza quasi accorgersene (si
parlò di trilogia solo a posteriori), l'ha espresso come
nessun'altro è mai riuscito a fare nell'arte. la profondità dei
temi trattati, l'inventiva strumentale dei musicisti coinvolti e
soprattutto l'ispirazione che ha portato alla scrittura di questi
brani sono esempi indiscutibilmente perfetti di espressione artistica
pura e sincera, quella che non conosce distinzioni tra generi, solo
il sentire e reagire di conseguenza. ciò che è alla base di ogni
essere umano.